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Una nuova vita in campagna con un marito, un numero variabile di gatti e un cane con un solo neurone. La passione per la musica classica e per i borghi medievali, per la spiritualità dei Nativi Americani e per i misteri irrisolti, per le autoproduzioni e il vivere consapevole. Questa è la mia vita. Queste sono le mie storie.
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giovedì 3 novembre 2016

Requiem per un terreno incolto


Per più di quattordici anni è stata la mia vista dalla finestra della camera, la prima cosa che vedevo al mattino e l'ultima che vedevo alla sera prima di chiudere le persiane. Quando sono venuta ad abitare non c'erano ancora i lampioni lungo le strade, e nelle sere d'estate si vedevano volare le lucciole. Poi sono arrivati i lampioni e le lucciole sono scappate verso la campagna, ma ormai non si vedono quasi più neanche lì.
Il campo davanti a casa non era niente, solo un lotto edificabile dimenticato e abbandonato con un cartello sbilenco con su scritto "Vendesi area edificabile". Di tanto in tanto qualcuno veniva e cambiava il cartello, sostituendolo con uno più nuovo con un diverso numero di telefono, poi il mondo tornava a dimenticarsi di lui.
Ogni estate ci cresceva una straordinaria collezione di erbacce di ogni tipo che erano tana e rifugio per molti degli animali del villaggio. I gatti amavano nascondersi in quell'intrico, per sonnecchiare o cacciare topini di campagna. I cani trovavano un posto morbido e fresco dove riposare. I vecchi ci entravano a cercare lumache e cicorie. Nelle sere più calde era bello passeggiare lì vicino e sentire il fresco dell'erba che scacciava il caldo dell'asfalto. Nei giorni di neve era un piacere per il cuore vedere il mio cane correre felice in quella vastità bianca.
Tutto questo adesso non c'è più. Una mattina è arrivato un caterpillar che ha spianato tutto, ferendo a morte la terra e le piante che ci vivevano, e di quel piccolo mondo verde è rimasta solo un quadrato di terriccio riarso e muto. Ci costruiranno delle villette. Verranno uomini, donne, bambini e automobili. Ci faranno piccoli giardini uguali a tutti gli altri piccoli giardini del vicinato, con le stesse piante e le stesse lanterne a illuminare gli stessi vialetti. Metteranno anche loro una piscina e un barbecue e faranno le ore piccole con gli amici.
Quel piccolo frammento di verde e di quiete che eravamo riusciti a conservare dai giorni del nostro arrivo qui, quando il villaggio residenziale dove abitiamo era grande un terzo di quello che è adesso, sparirà nel nulla, e noi dovremmo fare ancora più strada per trovare altri frammenti di verde e di quiete.
Era solo un campo incolto. Ma da oggi sarò un pochino più triste quando aprirò le persiane al mattino e le chiuderò alla sera.

domenica 28 febbraio 2016

Il nostro mondo è cambiato e certe cose non torneranno più

Una volta telefonavamo infilando il dito in una ruota, dopo aver cercato il numero su un elenco telefonico che cambiava ogni anno, e guai se non riconsegnavi quello vecchio. Ascoltavamo la musica mettendo una cassetta di plastica dentro un walkman grande come un libro tascabile, magari dopo averla riavvolta con una Bic per fare più alla svelta e per risparmiare le pile, che duravano sempre troppo poco. I più fortunati avevano un videoregistratore attaccato a un televisore largo abbastanza da poterci mettere sopra la gondola-souvenir di Venezia, un orologio meccanico con la gallina che becchetta misurando i secondi, e un gatto. Se volevamo fare una foto al gatto dovevamo prendere una macchina fotografica e metterci dentro un rullino nuovo, sperando che nel frattempo non se ne fosse andato o non avesse fatto cadere la gondola e la sveglia.











 

I nostri computer erano grandi quanto i televisori, ed erano pesanti. Quando li accendevi compariva la scritta C:\ su un fondo nero, e per salvare i nostri dati dovevamo infilare in un’apposita fessura degli appositi dischetti contenuti in involucri di plastica. Chi li aveva li esibiva orgoglioso sull’autobus o in metropolitana, sentendosi un eletto, il rappresentante di una casta in grado di dominare le nuove tecnologie, e non si rendeva conto di stare tenendo in mano l’equivalente di un osso di brontosauro.

Quando eravamo fuori casa e avevamo bisogno di telefonare, dovevamo cercare una cabina del telefono. Una volta funzionavano solo con i gettoni, che nella mia memoria valevano sempre 200 lire e a volte te li davano come resto al supermercato. Poi sono diventati più moderni e accettavano qualunque moneta, ma solo dalle 100 lire in su, e al posto della ruota da girare con un dito c’erano dei tasti da premere con lo stesso dito. Più avanti ancora funzionavano anche con delle schede che qualcuno collezionava. Mi chiedo quante siano le persone che hanno ancora i cassetti pieni di questi piccoli oggetti, emblemi di un’inutilità elevata all’ennesima potenza.








Adesso la musica la ascoltiamo con il nostro telefono, che è poco più grande di una di quelle vecchie e inutili schede telefoniche, e volendo fa anche le foto al gatto senza bisogno della pellicola. Il gatto però non sta più sul televisore assieme alla gondola-souvenir di Venezia e alla gallina che becchetta all’infinito, perché il televisore è largo due dita, i souvenir non li compriamo più, e la gallina ha smesso da anni di becchettare. Se vogliamo un ricordo di Venezia ci facciamo un selfie davanti al ponte di Rialto, e per sapere che ore sono basta il telefono.
I nostri computer spesso stanno anch’essi nel telefono, oppure dentro un tablet largo pochi centimetri che si fa funzionare con le dita. Lo schermo del tablet si sporca, ma è comunque di soddisfazione. I nostri dati li salviamo dentro delle chiavette decisamente più sexy dei dischetti quadrati di plastica, e a volte non facciamo neanche questo e li immagazziniamo dentro uno spazio virtuale all’interno di un server che magari sta all’altro capo del mondo.
I più tradizionalisti hanno un computer portatile con la tastiera dove spesso va a dormire il gatto orfano della vecchia televisione. Anche il più piccolo è potente come un condominio di vecchi computer C:\. Una volta richiuso è grande come bloc notes ed è ugualmente apprezzato dal gatto.

Sì, il nostro mondo è decisamente cambiato, e certe cose non torneranno più. E forse è vero che il futuro non è più quello di una volta, quando sognavamo viaggi nello spazio e auto volanti, ma anche così non è poi tanto male…

martedì 16 febbraio 2016

Rigenerazione - Atto finale

Di solito questi pensieri mi vengono a primavera, quando il sole è tiepido e le prime belle giornate ti fanno venire voglia di liberare anche la mente, non solo la casa, dalla polvere accumulata durante l'inverno. Stavolta è successo prima, complice forse la mezza giornata di tregua dalle piogge (comunque benvenute dopo mesi di siccità): sono andata nello studiolo, ho tirato i cassettoni sotto il divano-letto e ho tirato fuori i vecchi libri di libri di scuola e di università. Ne avevo già eliminati alcuni, regalati oppure prestati e mai più tornati indietro. Mi ero tenuta quelli a cui ero più assurdamente affezionata, ben sapendo che non li avrei mai più riaperti, nemmeno se mi fosse venuto lo sfizio di andare a recuperare qualche vecchia nozione. Perché il mondo nel frattempo è cambiato, e libri e manuali hanno lasciato il posto a google e wikipedia, e se proprio avessi avuto l’insana voglia di approfondire qualcuno di quegli argomenti, avrei sempre potuto andare in una vecchia, cara biblioteca.
Così ho spedito verso il loro ultimo viaggio le dispense di geologia, gli appunti di chimica, le relazioni di elettronica, i libri delle superiori sfogliati e risfogliati, e tutti gli appunti di cinque anni di esami all’università; non essere riuscita a laurearmi è il grande cruccio della mia vita. Nulla per cui non dorma alla notte, chiaro, ma mi dispiace comunque.
La fotocopia del libretto universitario è una delle poche cose che ho tenuto di quegli anni, assieme al libro di chimica (che era costato un patrimonio e sembra un antico tomo da biblioteca polverosa)


e la tavola periodica degli elementi, chissà poi perché. Avevo una buona media, non eccelsa ma decente, però ho dovuto lasciar perdere per uno di quei motivi che erano scritti nei miei diari e adesso saranno già stati trasformati in uno scatolone da una cartiera. Ma non cerco alibi, avrei comunque interrotto gli studi perché ero consapevole che non avrei mai passato lo scoglio di un esame dal nome altisonante di Meccanica Razionale. Evoca grandiosi scenari di conoscenza su uno sfondo di cieli stellati e nebulose, e invece tutto si riassumeva in incomprensibili problemi di dischi in movimento collegati tramite perni e pulegge ad altri dischi più grandi. Ogni volta che guardavo uno di quegli esercizi mi tornava in mente la maestra delle elementari, la terribile signorina Marangoni, e i suoi altrettanto incomprensibili problemi di vasche forate che si riempivano sempre più velocemente di quanto si svuotassero. Lei voleva da me delle risposte che io non sapevo darle (“se entrano 10 litri al secondo ed escono 8 litri al secondo, quanto tempo ci vuole prima che la vasca si riempia e l’acqua esca fuori?”)… o meglio, avrei potuto anche dargliele, ma anche allora ero una bambina molto pratica e non capivo perché non si potesse semplicemente chiudere il rubinetto prima che succedesse il disastro, e questa mia praticità spicciola mi bloccava. E in fondo mi faceva anche sentire in colpa, non solo perché ero una scolara asina, ma anche perché a causa della mia ignoranza la casa si sarebbe presto allagata e l’acqua avrebbe tracimato fino al piano di sotto – e poi chi lo sentiva lo scultore del secondo piano? Ecco, la Meccanica Razionale era la stessa cosa. Il fatto di non vedere un’applicazione immediata e pratica della suddetta materia alla vita reale mi impediva di comprendere, e senza comprensione non avrei mai potuto superare l’esame.
La stessa cosa era successa con l’esame di Geometria, che a dispetto del nome dimesso non si occupava affatto di cerchi e triangoli, ma era la chiave per comprendere anche il multiverso e la meccanica quantistica. L’ho capito troppo tardi, quando ormai mi ero accontentata di un 18 e avevo già deciso di mollare. Peccato. Oppure no? Forse semplicemente non era destino, o forse anche l’università è qualcosa per cui occorre aspettare il momento giusto. Forse potrei ricominciare a studiare adesso che ho più di quarant’anni e i capelli iniziano a ingrigire, facendo tesoro del bagaglio di esperienze e conoscenze accumulate nei venticinque anni che sono passati dal diploma.

…ma forse ci sono troppi forse in questo discorso. Quello che so per certo è che anche questo pezzo della mia vita domani finirà nella pancia del camion della raccolta differenziata, e adesso mi sento più leggera.

martedì 10 novembre 2015

Autunno...



Anche se fa un caldo dell’accidente e pare di essere in primavera inoltrata (…con buona pace di chi non crede al riscaldamento globale: venti gradi al 10 di novembre è tutto tranne che normale)


  
è comunque autunno! E l’autunno mi piace tantissimo, forse più dell’inverno – che per me ha un senso solo se nevica, altrimenti è una stagione un po’ insulsa.
Mi piace l’autunno perché…
Beh, per prima cosa perché nonostante tutto fa fresco, e di questi tempi non è cosa da poco. E poi perché dopo una pioggia d’autunno la terra prende un odore più buono di quello che si sente dopo una pioggia estiva. È più forte, più penetrante, più buono, e ha il potere di riportarmi istantaneamente alla mia infanzia quando andavo in montagna a far castagne con mamma e papà.


In autunno finiscono i lavori in giardino e finalmente ci si può concedere un poco di riposo. Si ha più tempo per leggere, per scrivere, per le autoproduzioni e per sistemare la casa. Si ricominciano a mangiare zuppe e polente, castagne e funghi e zucche, e anche le mele al forno con la cannella, che sono una ghiottoneria e fanno subito pensare al Natale; le si può mangiare anche in estate, non lo vieta nessuno, ma sono un po’ posticce e non hanno lo stesso sapore.


E poi possiamo finalmente gustarci una tazza di tè o una tisana, magari alla sera davanti alla tv con un gatto che ci sonnecchia sulle ginocchia.

I colori, in autunno, sono bellissimi. Certo, non abbiamo lo spettacolo strepitoso dei colori del nord America perché da noi manca il rosso degli aceri, ma anche così le nostre montagne e le nostre campagne riescono lo stesso a scaldare il cuore. E anche il giardino più banale o il parco più spelacchiato in autunno diventano spettacolari.


Se si è fortunati, in autunno c’è la nebbia, che tutti detestano ma che io amo quasi quanto la neve, se non un pochino di più. Dipenderà dal fatto che un po’ sono milanese e un po’ sono emiliana, patrie di gran nebbie, almeno in passato. Adesso la si vede raramente, e pure quando capita non è più com’era anche solo vent’anni fa, quando davvero non si vedeva a un passo e talvolta non si dissolveva neanche a mezzogiorno. Adesso più che altro ci sono delle foschie o delle brume che salgono dai campi, ma tutto è bello per chi si sa accontentare, e ogni passeggiata diventa speciale.


Ma forse la cosa che più mi piace dell’autunno è che si comincia ad accendere la stufa, e questo per me è uno dei piccoli, grandi piaceri della vita. Anche il calorifero scalda, ma chiunque lo abbia sperimentato sa che il calore del fuoco scalda in maniera diversa.


Il caldo del termosifone si ferma alla pelle, il fuoco riesce a raggiungere il cuore e la nostra anima più profonda, e va a toccare corde nascoste nella nostra memoria. Che non è fatta solo dai nostri ricordi, ma anche da quelli dei nostri genitori, e dei loro genitori, e di tutti gli antenati che ci hanno preceduto, che almeno un giorno della loro vita hanno allungato le mani verso il fuoco per scaldarsi. E ogni volta che faccio partire la stufa ripetendo gesti antichi come il mondo – gesti che ho scoperto di avere dentro di me senza bisogno che qualcuno me li insegnasse – mi sembra quasi di sentire quegli antichi e sconosciuti progenitori annuire soddisfatti per quello che sto facendo.

mercoledì 14 ottobre 2015

Rigenerazione d'autunno



Mi ci è voluto un po’ per affrontare il Moloch, lo scatolone da me accuratamente relegato nell’angolo più scomodo del garage, quello che conteneva tutti i miei diari. Ricordo che quando ero piccolina, diciamo sette o otto anni, il diario era un regalo consueto, il tipico dono degli scarsi di fantasia che permetteva loro di trarsi d’impaccio con poco, facendo comunque bella figura.
Chissà se nel nuovo millennio esistono ancora diari come quelli?


Lo detestavo, soprattutto per via di quel lucchetto che prometteva segretezza e inviolabilità e invece si poteva forzare con una forcina per capelli. Ci scribacchiavo su qualche cosa, pensierini confusi e qualche disegno, e inevitabilmente dopo qualche tempo finivano dimenticati in un angolo per poi essere buttati alla prima occasione (e allora non c’era neanche la raccolta differenziata; finivano in discarica o negli inceneritori).
Come per tante altre cose, forse per tutte le cose, non era ancora il suo tempo. Sarebbe venuto molti anni dopo, quando ero al primo anno delle superiori. Era primavera inoltrata, avevo 14 anni e abitavo ancora nella casa dove ero cresciuta… molte vite fa, a pensarci bene. Credo di avere cominciato per il motivo per cui tutti iniziano a tenere un diario: per parlare liberamente di tutto quello che mi passava per la testa senza timore di essere interrotta, giudicata o non capita. Scrivevo sui quaderni di scuola, più avanti anche su un paio di Smemoranda, ma solo perché lo facevano tutte le mie amiche ed ero stufa di sentirmi l’unica cretina al mondo che non ce l’aveva. Anno dopo anno, pagina dopo pagina, avevo scritto abbastanza da riempire uno scatolone enorme e pesantissimo, che mi ha seguito trasloco dopo trasloco fin qui in campagna, ma ho sempre avuto un cattivo rapporto con quei quaderni e più di una volta ho avuto la tentazione di gettarli via.

Ho continuato a tenere il diario finché non ho scoperto un altro modo per parlare liberamente di tutto quello che mi passava per la testa, che poi è scrivere storie. E quando ho capito che questo è molto più divertente, entusiasmante, faticoso e stimolante di scrivere banali resoconti delle mie giornate, i diari sono finiti nell’angolo più scomodo del garage, quello dove non vado mai, e dove lo sguardo non arriva mai. Era il 2003, e da allora non ho mai più riaperto quello scatolone. Fino ad ora. Di solito l’impulso a fare certe cose mi arriva in primavera, quando il sole intiepidisce l’aria e si cominciano a tenere le finestre aperte, e si vede tutta la polvere che c’è attorno e la voglia di fare pulizia sgorga dal profondo dell’anima; oppure in autunno, quando i primi freschi spingono a rintanarsi in casa e a far pulizie in vista dell’inverno. E per me è uno stimolo potente, simile a quello che spinge gli animali a migrare.
Il richiamo dello scatolone si faceva di anno in anno sempre più difficile da ignorare, così ho deciso che questa sarebbe stata la volta buona di affrontare il Moloch. Ho aspettato che il mio maritone andasse al lavoro, sono scesa, ho scostato la vecchia affettatrice di mia suocera e l’acquario che mi ostino a tenere nonostante non abbia più i pesci da anni, e ho tirato la scatola in mezzo al garage. Non ho riletto nessuno di quei vecchi quaderni. Mi sono limitata a sfogliarli sommariamente per rimuovere tutte le cose che da ragazzina amavo incollare sulle pagine e che non potevo gettare assieme alla carta. Ne è venuto fuori un mucchietto alquanto eterogeneo… peccato che avessi il cellulare scarico perché avrebbe meritato una foto. C’erano dischetti del computer e vecchie monete, microchip e led rubati nel laboratorio di elettronica alle superiori, stringhe delle scarpe, un posacenere di alluminio, portamonete e campioncini di bagnoschiuma, targhette di ogni tipo e un pezzo della spugna che fungeva da cancellino della lavagna, oggetto diventato di culto nella mia classe dopo essere finito in cima a un albero per mano mia.


Ho tenuto qualcosa, come i vecchi dischetti del computer che a loro modo sono una testimonianza del passato. E poi la copertina di uno di quei diari, quella con su un procione e il numero 14 stampato con i trasferelli, per ricordare a me stessa che niente accade mai per caso (...frase un po' criptica. Un giorno o l'altro ne spiegherò il senso)


Non ho riletto nessuna delle parole scritte su quei quaderni, me ne sono guardata bene. Il mio passato non è sempre stato felice, e non avevo nessuna voglia di andare a scoperchiare vecchi vasi di Pandora e andare a rinnovare dolori e paturnie che faticosamente ero riuscita a lasciarmi alle spalle… tutte le esperienze poco edificanti, le mille paturnie adolescenziali, le paure per i compiti in classe, i piccoli e grandi batticuori per un ragazzo, i problemi con mia madre...
Ma non ho letto niente neanche quando sapevo che su quel particolare quaderno avrei trovato degli episodi più piacevoli e innocui, perché comunque quei pensieri appartenevano ad una persona diversa da quella che sta scrivendo queste righe, e per me non significavano più niente. Sarebbe stato come leggere i racconti di un estraneo. Il passato è passato, sta bene dove sta, e nel mio caso adesso sta bene nella pancia del camion della raccolta della carta. Diventerà altra carta con la quale magari realizzeranno un altro diario per ragazzine, o uno scatolone dove stivare vecchie memorie, e il cerchio si chiuderà. Per conto mio adesso mi sento più leggera.

giovedì 10 settembre 2015

Settembre, finalmente...



Finalmente il fresco, il vento e le nuvole nel cielo di nuovo azzurro! Finalmente si può stare fuori a passeggiare o a lavorare, e l’aria è frizzante e piacevole. Finalmente non si è più costretti a vivere sigillati in casa, con le finestre chiuse e le imposte sbarrate per tenere fuori il caldo violento che in questa lunga estate calda aveva assunto una consistenza quasi fisica. Il caldo lo potevi toccare, perché l’aria era diventata talmente spessa che più che respirarla ti pareva quasi di masticarla. E nel biancore abbacinante del mondo che si cuoceva sotto quel sole cattivo, persino le ombre sembravano svanire, prosciugate da un caldo inumano. D’accordo, non è stato come nel 2003, ma solo perché allora era durata cinque mesi pieni, da maggio a settembre, mentre quest’anno è stato più breve. Per il resto è stato lo stesso incubo a occhi aperti, un incubo di sudore e di immobilità forzata perché anche l’attività più insignificante era capace di sfiancarti.
Ma forse la cosa che più mi ha impressionato, in questa mia estate a 40°C, è stata il deserto delle persone attorno a me. Le poche volte che un impegno mi strappava dal fresco effimero della casa per buttarmi fuori in quell’inferno, mi sembrava di muovermi in uno di quegli scenari post-apocalittici da ‘ultimo uomo sulla Terra’. A parte le due o tre ore più fresche al primo mattino, dopo le 9 non c’era in giro più nessuno fino alla tarda sera. Nessuno per le strade, nessuno in paese, nessuno a fare la fila alla fontana dietro al municipio a prendere ‘l’acqua del sindaco’. Ma anche nessun animale in giro, o uccelli nel cielo, faceva troppo caldo anche per loro. Le uniche a sembrare felici erano le cicale, che dalla cima degli alberi intonavano per noi la loro musica struggente; ma sappiamo bene dalle antiche storie che non sono animali molto svegli, altrimenti non si farebbero fare la morale da un branco di formiche saccenti che invece hanno passato l’estate a rubare avanzi di cibo dai secchi dei rifiuti.
Tutto questo mi ha riportato alla mente le estati della mia infanzia al mare, in Molise, trascorse nella casa degli zii paterni. Parliamo della fine degli anni ’70, qualcosa come due o tre ere geologiche fa… un mondo diversissimo da quello di oggi. E, suppongo, anche un caldo diverso da quello di oggi. Dubito che anche allora ci fossero giorni in cui c’erano 32°C in casa come è capitato qui, e in ogni caso ero una bimbetta di 5 o 6 anni e a quell’età caldo e freddo sono concetti molto relativi; il caldo lo vedevo riflesso sui grandi che passavano il tempo a sventolarsi con ventagli colorati, ma non ricordo di averlo patito. Quello che invece ricordo bene erano i lunghi pomeriggi di noia trascorsi inventando giochi silenziosi mentre gli adulti dormivano per sopportare meglio le ore più calde della giornata: subito dopo pranzo venivano calate le tapparelle e si accostavano le finestre, e per le due o tre ore successive l’unica cosa che si sentiva era il russare deciso di mio padre e il canto potente delle cicale. Visto che pativo anche allora l’essere reclusa, di tanto in tanto mi infilavo sotto una tapparella e uscivo sul balcone a guardare il mondo, e quello che vedevo era lo stesso nulla che si vedeva anche qui. Persino la statale, che allora passava a pochi passi dalla casa degli zii, era per lo più deserta; passava solo qualche camion, facendo un rumore particolare che ancora adesso, quando lo sento, mi riporta a quegli anni.
Ecco, quando penso al sud e alle vacanze della mia infanzia, è questo ciò che mi viene in mente: strade vuote, tapparelle abbassate, finestre chiuse, cicale, un sole che stampa ombre nerissime sull’asfalto, pomeriggi di noia.


Rivivere le stesse cose qui e ora, in un altro luogo e in un altro tempo – riviverli da adulta – è spiazzante. Mi fa vivere in un eterno déjà vu, mi fa credere che il tempo (non solo quello atmosferico) si sia incasinato e non stia più scorrendo come dovrebbe.
È anche per questo che sono contenta che sia settembre, finalmente.

mercoledì 29 aprile 2015

Immagini ritrovate


Nella mia via c’era una latteria che nel retro aveva dei tavoli e ci si poteva anche mangiare. Ci si comprava anche il vino nei bottiglioni o nel fiasco, e l’essenza di trementina. Se compravi il vino, il lattaio te lo metteva nel sacchetto di plastica doppio, e il sacchetto di plastica non te lo faceva pagare. L’essenza di trementina non so, non l’ho mai comprata. Una volta il latte lo vendevano in un contenitore a forma di piramide. Costava 480 lire e si tenevano le monete da 5 e da 10 lire solo per quello. Poi qualcuno aveva deciso di vendere il latte a cifra tonda e quelle monete erano sparite. Te le davano solo in qualche supermercato, ma solo se eri un cliente antipatico.
Nella mia via c’era la latteria e anche il colorificio, che aveva le vetrine fatte di legno e di vetro. e per entrarci bisognava salire quattro gradini. Dentro invece era solo di legno. Legno sulle pareti, legno per le mensole, legno per gli scaffali. Di legno pure il bancone. Dentro il colorificio c’erano tutti i colori del mondo, bastava sceglierli su un catalogo e poi un uomo con una tuta blu o marrone usciva da dietro una tenda con una latta di quel colore. C’erano anche i pennelli per stendere quel colore, ma non eri obbligato a comprarli.
Nella mia via c’era pure un negozio di biciclette, che odorava di gomma delle ruote nuove e di grasso per le catene. E lì accanto c’era il ferramenta che all’occorrenza ti vendeva anche la pompa per gonfiare le ruote, e costava meno che nel negozio di biciclette.
Nella mia via c’era il fruttivendolo che a Natale metteva una catena di luci con le palle colorate, che avevano solo i fruttivendoli e qualche volta le macellerie. C’era anche quella nella mia via, ma non aveva le palle colorate a Natale. Però in estate fuori dalla porta aveva una tenda fatta di lunghi fili marroni spessi e pelosi.
Vicino alla mia via c’era anche una chiesa, e vicino alla chiesa c’era un giardinetto dove ci giocavano i bambini. Giravano sui vialetti con le biciclette o con i pattini che avevano le rotelle due per parte, e non in un’unica fila come i pattini moderni, oppure giocavano al pallone, se qualcuno lo portava. Per terra c’era l’asfalto, e se cadevano si sbucciavano le ginocchia, ma c’era una fontanella per lavarsi e il giorno dopo arrivavano con un cerotto messo di traverso. Nello stesso giardinetto ci portavano a passeggio i cani, e capitava che la palla si sporcasse di cacca, ma si lavava nella stessa fontanella e nessuno ci pensava più.
Nella mia via c’erano i pittori e gli scultori perché la mia via stava vicino all’Accademia di Brera, c’erano le botteghe e i bottegai, c’erano i fornai e i pasticceri, le prostitute e i travestiti, e anche degli architetti. Stavano tutti assieme senza trovarlo strano, e a noi bambini ci insegnavano che dovevamo salutare tutti.
Adesso nella mia via ci sono solo negozi di lusso, e nessuno saluta più nessuno perché non ci sono più i fornai e i pasticceri e i bottegai, non ci sono più le prostitute e i travestiti e nemmeno gli architetti, ma ci sono solo persone di lusso e a quanto pare quelle non salutano.

Non ci sono più neanch’io, nella mia via. L’ho lasciata quando ha cominciato a diventare di lusso e da allora ci sono tornata solo tre volte di numero. Una volta per rivedere la casa dov’ero cresciuta, un’altra volta perché avevo nostalgia e un’ultima volta prima di andarmene da Milano per sempre, per fare qualche foto. Ma quella che avevo fotografato non era più la mia via, e le immagini non mi dicevano niente. Invece questa, che ho ritrovato fra le cose di mia mamma, mi parla ancora, e la sua voce è forte.