Chi sono
- S.M.Geesbrug
- Una nuova vita in campagna con un marito, un numero variabile di gatti e un cane con un solo neurone. La passione per la musica classica e per i borghi medievali, per la spiritualità dei Nativi Americani e per i misteri irrisolti, per le autoproduzioni e il vivere consapevole. Questa è la mia vita. Queste sono le mie storie.
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giovedì 3 novembre 2016
Requiem per un terreno incolto
Per più di quattordici anni è stata la mia vista dalla finestra della camera, la prima cosa che vedevo al mattino e l'ultima che vedevo alla sera prima di chiudere le persiane. Quando sono venuta ad abitare non c'erano ancora i lampioni lungo le strade, e nelle sere d'estate si vedevano volare le lucciole. Poi sono arrivati i lampioni e le lucciole sono scappate verso la campagna, ma ormai non si vedono quasi più neanche lì.
Il campo davanti a casa non era niente, solo un lotto edificabile dimenticato e abbandonato con un cartello sbilenco con su scritto "Vendesi area edificabile". Di tanto in tanto qualcuno veniva e cambiava il cartello, sostituendolo con uno più nuovo con un diverso numero di telefono, poi il mondo tornava a dimenticarsi di lui.
Ogni estate ci cresceva una straordinaria collezione di erbacce di ogni tipo che erano tana e rifugio per molti degli animali del villaggio. I gatti amavano nascondersi in quell'intrico, per sonnecchiare o cacciare topini di campagna. I cani trovavano un posto morbido e fresco dove riposare. I vecchi ci entravano a cercare lumache e cicorie. Nelle sere più calde era bello passeggiare lì vicino e sentire il fresco dell'erba che scacciava il caldo dell'asfalto. Nei giorni di neve era un piacere per il cuore vedere il mio cane correre felice in quella vastità bianca.
Tutto questo adesso non c'è più. Una mattina è arrivato un caterpillar che ha spianato tutto, ferendo a morte la terra e le piante che ci vivevano, e di quel piccolo mondo verde è rimasta solo un quadrato di terriccio riarso e muto. Ci costruiranno delle villette. Verranno uomini, donne, bambini e automobili. Ci faranno piccoli giardini uguali a tutti gli altri piccoli giardini del vicinato, con le stesse piante e le stesse lanterne a illuminare gli stessi vialetti. Metteranno anche loro una piscina e un barbecue e faranno le ore piccole con gli amici.
Quel piccolo frammento di verde e di quiete che eravamo riusciti a conservare dai giorni del nostro arrivo qui, quando il villaggio residenziale dove abitiamo era grande un terzo di quello che è adesso, sparirà nel nulla, e noi dovremmo fare ancora più strada per trovare altri frammenti di verde e di quiete.
Era solo un campo incolto. Ma da oggi sarò un pochino più triste quando aprirò le persiane al mattino e le chiuderò alla sera.
domenica 28 febbraio 2016
Il nostro mondo è cambiato e certe cose non torneranno più
Una volta telefonavamo infilando il dito in una ruota, dopo aver cercato il numero su un elenco telefonico che cambiava ogni anno, e guai se non riconsegnavi quello vecchio. Ascoltavamo la musica mettendo una cassetta di plastica dentro un walkman grande come un libro tascabile, magari dopo averla riavvolta con una Bic per fare più alla svelta e per risparmiare le pile, che duravano sempre troppo poco. I più fortunati avevano un videoregistratore attaccato a un televisore largo abbastanza da poterci mettere sopra la gondola-souvenir di Venezia, un orologio meccanico con la gallina che becchetta misurando i secondi, e un gatto. Se volevamo fare una foto al gatto dovevamo prendere una macchina fotografica e metterci dentro un rullino nuovo, sperando che nel frattempo non se ne fosse andato o non avesse fatto cadere la gondola e la sveglia.



Adesso la musica la ascoltiamo con il nostro telefono, che è poco più grande di una di quelle vecchie e inutili schede telefoniche, e volendo fa anche le foto al gatto senza bisogno della pellicola. Il gatto però non sta più sul televisore assieme alla gondola-souvenir di Venezia e alla gallina che becchetta all’infinito, perché il televisore è largo due dita, i souvenir non li compriamo più, e la gallina ha smesso da anni di becchettare. Se vogliamo un ricordo di Venezia ci facciamo un selfie davanti al ponte di Rialto, e per sapere che ore sono basta il telefono.
I nostri computer spesso stanno anch’essi nel telefono, oppure dentro un tablet largo pochi centimetri che si fa funzionare con le dita. Lo schermo del tablet si sporca, ma è comunque di soddisfazione. I nostri dati li salviamo dentro delle chiavette decisamente più sexy dei dischetti quadrati di plastica, e a volte non facciamo neanche questo e li immagazziniamo dentro uno spazio virtuale all’interno di un server che magari sta all’altro capo del mondo.
I più tradizionalisti hanno un computer portatile con la tastiera dove spesso va a dormire il gatto orfano della vecchia televisione. Anche il più piccolo è potente come un condominio di vecchi computer C:\. Una volta richiuso è grande come bloc notes ed è ugualmente apprezzato dal gatto.
Sì, il nostro mondo è decisamente cambiato, e certe cose non torneranno più. E forse è vero che il futuro non è più quello di una volta, quando sognavamo viaggi nello spazio e auto volanti, ma anche così non è poi tanto male…



I nostri computer erano grandi quanto i televisori, ed erano pesanti.
Quando li accendevi compariva la scritta C:\ su un fondo nero, e per
salvare i nostri dati dovevamo infilare in un’apposita fessura degli
appositi dischetti contenuti in involucri di plastica. Chi li aveva li
esibiva orgoglioso sull’autobus o in metropolitana, sentendosi un
eletto, il rappresentante di una casta in grado di dominare le nuove
tecnologie, e non si rendeva conto di stare tenendo in mano
l’equivalente di un osso di brontosauro.
Quando eravamo fuori casa e avevamo bisogno di telefonare, dovevamo
cercare una cabina del telefono. Una volta funzionavano solo con i
gettoni, che nella mia memoria valevano sempre 200 lire e a volte te li
davano come resto al supermercato. Poi sono diventati più moderni e
accettavano qualunque moneta, ma solo dalle 100 lire in su, e al posto
della ruota da girare con un dito c’erano dei tasti da premere con lo
stesso dito. Più avanti ancora funzionavano anche con delle schede che
qualcuno collezionava. Mi chiedo quante siano le persone che hanno
ancora i cassetti pieni di questi piccoli oggetti, emblemi di
un’inutilità elevata all’ennesima potenza.



Adesso la musica la ascoltiamo con il nostro telefono, che è poco più grande di una di quelle vecchie e inutili schede telefoniche, e volendo fa anche le foto al gatto senza bisogno della pellicola. Il gatto però non sta più sul televisore assieme alla gondola-souvenir di Venezia e alla gallina che becchetta all’infinito, perché il televisore è largo due dita, i souvenir non li compriamo più, e la gallina ha smesso da anni di becchettare. Se vogliamo un ricordo di Venezia ci facciamo un selfie davanti al ponte di Rialto, e per sapere che ore sono basta il telefono.
I nostri computer spesso stanno anch’essi nel telefono, oppure dentro un tablet largo pochi centimetri che si fa funzionare con le dita. Lo schermo del tablet si sporca, ma è comunque di soddisfazione. I nostri dati li salviamo dentro delle chiavette decisamente più sexy dei dischetti quadrati di plastica, e a volte non facciamo neanche questo e li immagazziniamo dentro uno spazio virtuale all’interno di un server che magari sta all’altro capo del mondo.
I più tradizionalisti hanno un computer portatile con la tastiera dove spesso va a dormire il gatto orfano della vecchia televisione. Anche il più piccolo è potente come un condominio di vecchi computer C:\. Una volta richiuso è grande come bloc notes ed è ugualmente apprezzato dal gatto.
Sì, il nostro mondo è decisamente cambiato, e certe cose non torneranno più. E forse è vero che il futuro non è più quello di una volta, quando sognavamo viaggi nello spazio e auto volanti, ma anche così non è poi tanto male…
martedì 16 febbraio 2016
Rigenerazione - Atto finale
Di solito questi pensieri mi vengono a primavera, quando il sole è tiepido e le prime belle giornate ti fanno venire voglia di liberare anche la mente, non solo la casa, dalla polvere accumulata durante l'inverno. Stavolta è successo prima, complice forse la mezza giornata di tregua dalle piogge (comunque benvenute dopo mesi di siccità): sono andata nello studiolo, ho tirato i cassettoni sotto il divano-letto e ho tirato fuori i vecchi libri di libri di scuola e di università. Ne avevo già eliminati alcuni, regalati oppure prestati e mai più tornati indietro. Mi ero tenuta quelli a cui ero più assurdamente affezionata, ben sapendo che non li avrei mai più riaperti, nemmeno se mi fosse venuto lo sfizio di andare a recuperare qualche vecchia nozione. Perché il mondo nel frattempo è cambiato, e libri e manuali hanno lasciato il posto a google e wikipedia, e se proprio avessi avuto l’insana voglia di approfondire qualcuno di quegli argomenti, avrei sempre potuto andare in una vecchia, cara biblioteca.
Così ho spedito verso il loro ultimo viaggio le dispense di geologia, gli appunti di chimica, le relazioni di elettronica, i libri delle superiori sfogliati e risfogliati, e tutti gli appunti di cinque anni di esami all’università; non essere riuscita a laurearmi è il grande cruccio della mia vita. Nulla per cui non dorma alla notte, chiaro, ma mi dispiace comunque.
La fotocopia del libretto universitario è una delle poche cose che ho tenuto di quegli anni, assieme al libro di chimica (che era costato un patrimonio e sembra un antico tomo da biblioteca polverosa)
e la tavola periodica degli elementi, chissà poi perché. Avevo una buona media, non eccelsa ma decente, però ho dovuto lasciar perdere per uno di quei motivi che erano scritti nei miei diari e adesso saranno già stati trasformati in uno scatolone da una cartiera. Ma non cerco alibi, avrei comunque interrotto gli studi perché ero consapevole che non avrei mai passato lo scoglio di un esame dal nome altisonante di Meccanica Razionale. Evoca grandiosi scenari di conoscenza su uno sfondo di cieli stellati e nebulose, e invece tutto si riassumeva in incomprensibili problemi di dischi in movimento collegati tramite perni e pulegge ad altri dischi più grandi. Ogni volta che guardavo uno di quegli esercizi mi tornava in mente la maestra delle elementari, la terribile signorina Marangoni, e i suoi altrettanto incomprensibili problemi di vasche forate che si riempivano sempre più velocemente di quanto si svuotassero. Lei voleva da me delle risposte che io non sapevo darle (“se entrano 10 litri al secondo ed escono 8 litri al secondo, quanto tempo ci vuole prima che la vasca si riempia e l’acqua esca fuori?”)… o meglio, avrei potuto anche dargliele, ma anche allora ero una bambina molto pratica e non capivo perché non si potesse semplicemente chiudere il rubinetto prima che succedesse il disastro, e questa mia praticità spicciola mi bloccava. E in fondo mi faceva anche sentire in colpa, non solo perché ero una scolara asina, ma anche perché a causa della mia ignoranza la casa si sarebbe presto allagata e l’acqua avrebbe tracimato fino al piano di sotto – e poi chi lo sentiva lo scultore del secondo piano? Ecco, la Meccanica Razionale era la stessa cosa. Il fatto di non vedere un’applicazione immediata e pratica della suddetta materia alla vita reale mi impediva di comprendere, e senza comprensione non avrei mai potuto superare l’esame.
La stessa cosa era successa con l’esame di Geometria, che a dispetto del nome dimesso non si occupava affatto di cerchi e triangoli, ma era la chiave per comprendere anche il multiverso e la meccanica quantistica. L’ho capito troppo tardi, quando ormai mi ero accontentata di un 18 e avevo già deciso di mollare. Peccato. Oppure no? Forse semplicemente non era destino, o forse anche l’università è qualcosa per cui occorre aspettare il momento giusto. Forse potrei ricominciare a studiare adesso che ho più di quarant’anni e i capelli iniziano a ingrigire, facendo tesoro del bagaglio di esperienze e conoscenze accumulate nei venticinque anni che sono passati dal diploma.
…ma forse ci sono troppi forse in questo discorso. Quello che so per certo è che anche questo pezzo della mia vita domani finirà nella pancia del camion della raccolta differenziata, e adesso mi sento più leggera.
Così ho spedito verso il loro ultimo viaggio le dispense di geologia, gli appunti di chimica, le relazioni di elettronica, i libri delle superiori sfogliati e risfogliati, e tutti gli appunti di cinque anni di esami all’università; non essere riuscita a laurearmi è il grande cruccio della mia vita. Nulla per cui non dorma alla notte, chiaro, ma mi dispiace comunque.
La fotocopia del libretto universitario è una delle poche cose che ho tenuto di quegli anni, assieme al libro di chimica (che era costato un patrimonio e sembra un antico tomo da biblioteca polverosa)
e la tavola periodica degli elementi, chissà poi perché. Avevo una buona media, non eccelsa ma decente, però ho dovuto lasciar perdere per uno di quei motivi che erano scritti nei miei diari e adesso saranno già stati trasformati in uno scatolone da una cartiera. Ma non cerco alibi, avrei comunque interrotto gli studi perché ero consapevole che non avrei mai passato lo scoglio di un esame dal nome altisonante di Meccanica Razionale. Evoca grandiosi scenari di conoscenza su uno sfondo di cieli stellati e nebulose, e invece tutto si riassumeva in incomprensibili problemi di dischi in movimento collegati tramite perni e pulegge ad altri dischi più grandi. Ogni volta che guardavo uno di quegli esercizi mi tornava in mente la maestra delle elementari, la terribile signorina Marangoni, e i suoi altrettanto incomprensibili problemi di vasche forate che si riempivano sempre più velocemente di quanto si svuotassero. Lei voleva da me delle risposte che io non sapevo darle (“se entrano 10 litri al secondo ed escono 8 litri al secondo, quanto tempo ci vuole prima che la vasca si riempia e l’acqua esca fuori?”)… o meglio, avrei potuto anche dargliele, ma anche allora ero una bambina molto pratica e non capivo perché non si potesse semplicemente chiudere il rubinetto prima che succedesse il disastro, e questa mia praticità spicciola mi bloccava. E in fondo mi faceva anche sentire in colpa, non solo perché ero una scolara asina, ma anche perché a causa della mia ignoranza la casa si sarebbe presto allagata e l’acqua avrebbe tracimato fino al piano di sotto – e poi chi lo sentiva lo scultore del secondo piano? Ecco, la Meccanica Razionale era la stessa cosa. Il fatto di non vedere un’applicazione immediata e pratica della suddetta materia alla vita reale mi impediva di comprendere, e senza comprensione non avrei mai potuto superare l’esame.
La stessa cosa era successa con l’esame di Geometria, che a dispetto del nome dimesso non si occupava affatto di cerchi e triangoli, ma era la chiave per comprendere anche il multiverso e la meccanica quantistica. L’ho capito troppo tardi, quando ormai mi ero accontentata di un 18 e avevo già deciso di mollare. Peccato. Oppure no? Forse semplicemente non era destino, o forse anche l’università è qualcosa per cui occorre aspettare il momento giusto. Forse potrei ricominciare a studiare adesso che ho più di quarant’anni e i capelli iniziano a ingrigire, facendo tesoro del bagaglio di esperienze e conoscenze accumulate nei venticinque anni che sono passati dal diploma.
…ma forse ci sono troppi forse in questo discorso. Quello che so per certo è che anche questo pezzo della mia vita domani finirà nella pancia del camion della raccolta differenziata, e adesso mi sento più leggera.
martedì 10 novembre 2015
Autunno...
Anche
se fa un caldo dell’accidente e pare di essere in primavera inoltrata (…con
buona pace di chi non crede al riscaldamento globale: venti gradi al 10
di novembre è tutto tranne che normale)
è comunque autunno! E l’autunno
mi piace tantissimo, forse più dell’inverno – che per me ha un senso solo
se nevica, altrimenti è una stagione un po’ insulsa.
Mi
piace l’autunno perché…
Beh, per prima cosa perché nonostante tutto fa fresco, e di questi tempi non è cosa
da poco. E poi perché dopo una pioggia d’autunno la terra prende un odore più
buono di quello che si sente dopo una pioggia estiva. È più forte, più
penetrante, più buono, e ha il potere di riportarmi istantaneamente alla mia
infanzia quando andavo in montagna a far castagne con mamma e papà.
In
autunno finiscono i lavori in giardino e finalmente ci si può concedere un poco
di riposo. Si ha più tempo per leggere, per scrivere, per le autoproduzioni e
per sistemare la casa. Si ricominciano a mangiare zuppe e polente, castagne e
funghi e zucche, e anche le mele al forno con la cannella, che sono una
ghiottoneria e fanno subito pensare al Natale; le si può mangiare anche in
estate, non lo vieta nessuno, ma sono un po’ posticce e non hanno lo stesso
sapore.
E poi possiamo finalmente gustarci una tazza di tè o una tisana, magari
alla sera davanti alla tv con un gatto che ci sonnecchia sulle ginocchia.
I colori, in autunno, sono bellissimi. Certo, non abbiamo lo spettacolo
strepitoso dei colori del nord America perché da noi manca il rosso degli
aceri, ma anche così le nostre montagne e le nostre campagne riescono lo stesso
a scaldare il cuore. E anche il giardino più banale o il parco più spelacchiato
in autunno diventano spettacolari.
Ma
forse la cosa che più mi piace dell’autunno è che si comincia ad accendere la
stufa, e questo per me è uno dei piccoli, grandi piaceri della vita. Anche il
calorifero scalda, ma chiunque lo abbia sperimentato sa che il calore del fuoco
scalda in maniera diversa.
Il caldo del termosifone si ferma alla pelle, il
fuoco riesce a raggiungere il cuore e la nostra anima più profonda, e va a
toccare corde nascoste nella nostra memoria. Che non è fatta solo dai nostri
ricordi, ma anche da quelli dei nostri genitori, e dei loro genitori, e di
tutti gli antenati che ci hanno preceduto, che almeno un giorno della loro vita
hanno allungato le mani verso il fuoco per scaldarsi. E ogni volta che faccio
partire la stufa ripetendo gesti antichi come il mondo – gesti che ho scoperto
di avere dentro di me senza bisogno che qualcuno me li insegnasse – mi sembra
quasi di sentire quegli antichi e sconosciuti progenitori annuire soddisfatti
per quello che sto facendo.
mercoledì 14 ottobre 2015
Rigenerazione d'autunno
Mi ci è
voluto un po’ per affrontare il Moloch, lo scatolone da me accuratamente
relegato nell’angolo più scomodo del garage, quello che conteneva tutti i miei
diari. Ricordo che quando ero piccolina, diciamo sette o otto anni, il diario
era un regalo consueto, il tipico dono degli scarsi di fantasia che permetteva
loro di trarsi d’impaccio con poco, facendo comunque bella figura.
Chissà se
nel nuovo millennio esistono ancora diari come quelli?
Lo
detestavo, soprattutto per via di quel lucchetto che prometteva segretezza e
inviolabilità e invece si poteva forzare con una forcina per capelli. Ci
scribacchiavo su qualche cosa, pensierini confusi e qualche disegno, e
inevitabilmente dopo qualche tempo finivano dimenticati in un angolo per poi
essere buttati alla prima occasione (e allora non c’era neanche la raccolta
differenziata; finivano in discarica o negli inceneritori).
Come per tante
altre cose, forse per tutte le cose, non era ancora il suo tempo. Sarebbe venuto
molti anni dopo, quando ero al primo anno delle superiori. Era primavera
inoltrata, avevo 14 anni e abitavo ancora nella casa dove ero cresciuta… molte
vite fa, a pensarci bene. Credo di avere cominciato per il motivo per cui tutti
iniziano a tenere un diario: per parlare liberamente di tutto quello che mi
passava per la testa senza timore di essere interrotta, giudicata o non capita.
Scrivevo sui quaderni di scuola, più avanti anche su un paio di Smemoranda, ma
solo perché lo facevano tutte le mie amiche ed ero stufa di sentirmi l’unica
cretina al mondo che non ce l’aveva. Anno dopo anno, pagina dopo pagina, avevo
scritto abbastanza da riempire uno scatolone enorme e pesantissimo, che mi ha
seguito trasloco dopo trasloco fin qui in campagna, ma ho sempre avuto un cattivo rapporto con quei
quaderni e più di una volta ho avuto la tentazione di gettarli via.
Ho
continuato a tenere il diario finché non ho scoperto un altro modo per parlare
liberamente di tutto quello che mi passava per la testa, che poi è scrivere
storie. E quando ho capito che questo è molto più divertente, entusiasmante,
faticoso e stimolante di scrivere banali resoconti delle mie giornate, i diari
sono finiti nell’angolo più scomodo del garage, quello dove non vado mai, e
dove lo sguardo non arriva mai. Era il 2003, e da allora non ho mai più
riaperto quello scatolone. Fino ad ora. Di solito l’impulso a fare certe cose
mi arriva in primavera, quando il sole intiepidisce l’aria e si cominciano a
tenere le finestre aperte, e si vede tutta la polvere che c’è attorno e la
voglia di fare pulizia sgorga dal profondo dell’anima; oppure in autunno,
quando i primi freschi spingono a rintanarsi in casa e a far pulizie in vista
dell’inverno. E per me è uno stimolo potente, simile a quello che spinge gli
animali a migrare.
Il richiamo
dello scatolone si faceva di anno in anno sempre più difficile da ignorare,
così ho deciso che questa sarebbe stata la volta buona di affrontare il Moloch.
Ho aspettato che il mio maritone andasse al lavoro, sono scesa, ho scostato la
vecchia affettatrice di mia suocera e l’acquario che mi ostino a tenere
nonostante non abbia più i pesci da anni, e ho tirato la scatola in mezzo al
garage. Non ho riletto nessuno di quei vecchi quaderni. Mi sono limitata a
sfogliarli sommariamente per rimuovere tutte le cose che da ragazzina amavo
incollare sulle pagine e che non potevo gettare assieme alla carta. Ne è venuto
fuori un mucchietto alquanto eterogeneo… peccato che avessi il cellulare
scarico perché avrebbe meritato una foto. C’erano dischetti del computer e
vecchie monete, microchip e led rubati nel laboratorio di elettronica alle
superiori, stringhe delle scarpe, un posacenere di alluminio, portamonete e
campioncini di bagnoschiuma, targhette di ogni tipo e un pezzo della spugna che
fungeva da cancellino della lavagna, oggetto diventato di culto nella mia classe dopo essere
finito in cima a un albero per mano mia.
Ho tenuto qualcosa, come i vecchi dischetti del computer che a loro modo sono una testimonianza del passato. E poi la copertina di uno di quei diari, quella con su un procione e il numero 14 stampato con i trasferelli, per ricordare a me stessa che niente accade mai per caso (...frase un po' criptica. Un giorno o l'altro ne spiegherò il senso)
Non ho
riletto nessuna delle parole scritte su quei quaderni, me ne sono guardata
bene. Il mio passato non è sempre stato felice, e non avevo nessuna voglia di
andare a scoperchiare vecchi vasi di Pandora e andare a rinnovare dolori e
paturnie che faticosamente ero riuscita a lasciarmi alle spalle… tutte le esperienze
poco edificanti, le mille paturnie adolescenziali, le paure per i compiti in
classe, i piccoli e grandi batticuori per un ragazzo, i problemi con mia madre...
Ma non ho
letto niente neanche quando sapevo che su quel particolare quaderno avrei
trovato degli episodi più piacevoli e innocui, perché comunque quei pensieri
appartenevano ad una persona diversa da quella che sta scrivendo queste righe,
e per me non significavano più niente. Sarebbe stato come leggere i racconti di
un estraneo. Il passato è passato, sta bene dove sta, e nel mio caso adesso sta
bene nella pancia del camion della raccolta della carta. Diventerà altra carta
con la quale magari realizzeranno un altro diario per ragazzine, o uno
scatolone dove stivare vecchie memorie, e il cerchio si chiuderà. Per conto
mio adesso mi sento più leggera.
giovedì 10 settembre 2015
Settembre, finalmente...
Finalmente il fresco, il vento e le nuvole nel cielo di
nuovo azzurro! Finalmente si può stare fuori a passeggiare o a lavorare, e
l’aria è frizzante e piacevole. Finalmente non si è più costretti a vivere
sigillati in casa, con le finestre chiuse e le imposte sbarrate per tenere
fuori il caldo violento che in questa lunga estate calda aveva assunto una
consistenza quasi fisica. Il caldo lo potevi toccare, perché l’aria era diventata
talmente spessa che più che respirarla ti pareva quasi di masticarla. E nel
biancore abbacinante del mondo che si cuoceva sotto quel sole cattivo, persino
le ombre sembravano svanire, prosciugate da un caldo inumano. D’accordo, non è
stato come nel 2003, ma solo perché allora era durata cinque mesi pieni, da
maggio a settembre, mentre quest’anno è stato più breve. Per il resto è stato
lo stesso incubo a occhi aperti, un incubo di sudore e di immobilità forzata
perché anche l’attività più insignificante era capace di sfiancarti.
Ma forse la cosa che più mi ha impressionato, in questa mia
estate a 40°C, è stata il deserto delle persone attorno a me. Le poche volte
che un impegno mi strappava dal fresco effimero della casa per buttarmi fuori
in quell’inferno, mi sembrava di muovermi in uno di quegli scenari
post-apocalittici da ‘ultimo uomo sulla Terra’. A parte le due o tre ore più
fresche al primo mattino, dopo le 9 non c’era in giro più nessuno fino alla
tarda sera. Nessuno per le strade, nessuno in paese, nessuno a fare la fila
alla fontana dietro al municipio a prendere ‘l’acqua del sindaco’. Ma anche
nessun animale in giro, o uccelli nel cielo, faceva troppo caldo anche per
loro. Le uniche a sembrare felici erano le cicale, che dalla cima degli alberi intonavano
per noi la loro musica struggente; ma sappiamo bene dalle antiche storie che
non sono animali molto svegli, altrimenti non si farebbero fare la morale da un branco di formiche saccenti che invece hanno passato l’estate a rubare avanzi di cibo dai
secchi dei rifiuti.
Tutto questo mi ha riportato alla mente le estati della mia
infanzia al mare, in Molise, trascorse nella casa degli zii paterni. Parliamo
della fine degli anni ’70, qualcosa come due o tre ere geologiche fa… un mondo
diversissimo da quello di oggi. E, suppongo, anche un caldo diverso da quello
di oggi. Dubito che anche allora ci fossero giorni in cui c’erano 32°C in casa
come è capitato qui, e in ogni caso ero una bimbetta di 5 o 6 anni e a
quell’età caldo e freddo sono concetti molto relativi; il caldo lo vedevo
riflesso sui grandi che passavano il tempo a sventolarsi con ventagli colorati,
ma non ricordo di averlo patito. Quello che invece ricordo bene erano i
lunghi pomeriggi di noia trascorsi inventando giochi silenziosi mentre gli
adulti dormivano per sopportare meglio le ore più calde della giornata: subito
dopo pranzo venivano calate le tapparelle e si accostavano le finestre, e per
le due o tre ore successive l’unica cosa che si sentiva era il russare deciso
di mio padre e il canto potente delle cicale. Visto che pativo anche allora
l’essere reclusa, di tanto in tanto mi infilavo sotto una tapparella e uscivo
sul balcone a guardare il mondo, e quello che vedevo era lo stesso nulla che si
vedeva anche qui. Persino la statale, che allora passava a pochi passi dalla
casa degli zii, era per lo più deserta; passava solo qualche camion, facendo un
rumore particolare che ancora adesso, quando lo sento, mi riporta a quegli
anni.
Ecco, quando penso al sud e alle vacanze della mia infanzia,
è questo ciò che mi viene in mente: strade vuote, tapparelle abbassate,
finestre chiuse, cicale, un sole che stampa ombre nerissime sull’asfalto,
pomeriggi di noia.
Rivivere le stesse cose qui e ora, in un altro luogo e in un altro tempo – riviverli da adulta – è spiazzante. Mi fa vivere in un eterno déjà vu, mi fa credere che il tempo (non solo quello atmosferico) si sia incasinato e non stia più scorrendo come dovrebbe.
È anche per questo che sono contenta che sia settembre,
finalmente.
mercoledì 29 aprile 2015
Immagini ritrovate
Nella mia via c’era una latteria che nel retro aveva dei tavoli e ci si poteva anche mangiare. Ci si comprava anche il vino nei bottiglioni o nel fiasco, e l’essenza di trementina. Se compravi il vino, il lattaio te lo metteva nel sacchetto di plastica doppio, e il sacchetto di plastica non te lo faceva pagare. L’essenza di trementina non so, non l’ho mai comprata. Una volta il latte lo vendevano in un contenitore a forma di piramide. Costava 480 lire e si tenevano le monete da 5 e da 10 lire solo per quello. Poi qualcuno aveva deciso di vendere il latte a cifra tonda e quelle monete erano sparite. Te le davano solo in qualche supermercato, ma solo se eri un cliente antipatico.
Nella
mia via c’era la latteria e anche il colorificio, che aveva le vetrine fatte di
legno e di vetro. e per entrarci bisognava salire quattro gradini. Dentro invece
era solo di legno. Legno sulle pareti, legno per le mensole, legno per gli
scaffali. Di legno pure il bancone. Dentro il colorificio c’erano tutti i
colori del mondo, bastava sceglierli su un catalogo e poi un uomo con una tuta
blu o marrone usciva da dietro una tenda con una latta di quel colore. C’erano
anche i pennelli per stendere quel colore, ma non eri obbligato a comprarli.
Nella
mia via c’era pure un negozio di biciclette, che odorava di gomma delle ruote
nuove e di grasso per le catene. E lì accanto c’era il ferramenta che all’occorrenza
ti vendeva anche la pompa per gonfiare le ruote, e costava meno che nel negozio
di biciclette.
Nella mia via c’era il fruttivendolo che a Natale metteva una
catena di luci con le palle colorate, che avevano solo i fruttivendoli e
qualche volta le macellerie. C’era anche quella nella mia via, ma non aveva le
palle colorate a Natale. Però in estate fuori dalla porta aveva una tenda fatta
di lunghi fili marroni spessi e pelosi.
Vicino
alla mia via c’era anche una chiesa, e vicino alla chiesa c’era un giardinetto
dove ci giocavano i bambini. Giravano sui vialetti con le biciclette o con i
pattini che avevano le rotelle due per parte, e non in un’unica fila come i
pattini moderni, oppure giocavano al pallone, se qualcuno lo portava. Per terra
c’era l’asfalto, e se cadevano si sbucciavano le ginocchia, ma c’era una
fontanella per lavarsi e il giorno dopo arrivavano con un cerotto messo di
traverso. Nello stesso giardinetto ci portavano a passeggio i cani, e capitava
che la palla si sporcasse di cacca, ma si lavava nella stessa fontanella e
nessuno ci pensava più.
Nella
mia via c’erano i pittori e gli scultori perché la mia via stava vicino
all’Accademia di Brera, c’erano le botteghe e i bottegai, c’erano i fornai e i
pasticceri, le prostitute e i travestiti, e anche degli architetti. Stavano
tutti assieme senza trovarlo strano, e a noi bambini ci insegnavano che
dovevamo salutare tutti.
Adesso
nella mia via ci sono solo negozi di lusso, e nessuno saluta più nessuno perché
non ci sono più i fornai e i pasticceri e i bottegai, non ci sono più le
prostitute e i travestiti e nemmeno gli architetti, ma ci sono solo persone di
lusso e a quanto pare quelle non salutano.
Non ci
sono più neanch’io, nella mia via. L’ho lasciata quando ha cominciato a
diventare di lusso e da allora ci sono tornata solo tre volte di numero. Una
volta per rivedere la casa dov’ero cresciuta, un’altra volta perché avevo
nostalgia e un’ultima volta prima di andarmene da Milano per sempre, per fare
qualche foto. Ma quella che avevo fotografato non era più la mia via, e le
immagini non mi dicevano niente. Invece questa, che ho ritrovato fra le cose di mia mamma, mi parla ancora, e la sua voce è forte.
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