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Una nuova vita in campagna con un marito, un numero variabile di gatti e un cane con un solo neurone. La passione per la musica classica e per i borghi medievali, per la spiritualità dei Nativi Americani e per i misteri irrisolti, per le autoproduzioni e il vivere consapevole. Questa è la mia vita. Queste sono le mie storie.

martedì 16 febbraio 2016

Rigenerazione - Atto finale

Di solito questi pensieri mi vengono a primavera, quando il sole è tiepido e le prime belle giornate ti fanno venire voglia di liberare anche la mente, non solo la casa, dalla polvere accumulata durante l'inverno. Stavolta è successo prima, complice forse la mezza giornata di tregua dalle piogge (comunque benvenute dopo mesi di siccità): sono andata nello studiolo, ho tirato i cassettoni sotto il divano-letto e ho tirato fuori i vecchi libri di libri di scuola e di università. Ne avevo già eliminati alcuni, regalati oppure prestati e mai più tornati indietro. Mi ero tenuta quelli a cui ero più assurdamente affezionata, ben sapendo che non li avrei mai più riaperti, nemmeno se mi fosse venuto lo sfizio di andare a recuperare qualche vecchia nozione. Perché il mondo nel frattempo è cambiato, e libri e manuali hanno lasciato il posto a google e wikipedia, e se proprio avessi avuto l’insana voglia di approfondire qualcuno di quegli argomenti, avrei sempre potuto andare in una vecchia, cara biblioteca.
Così ho spedito verso il loro ultimo viaggio le dispense di geologia, gli appunti di chimica, le relazioni di elettronica, i libri delle superiori sfogliati e risfogliati, e tutti gli appunti di cinque anni di esami all’università; non essere riuscita a laurearmi è il grande cruccio della mia vita. Nulla per cui non dorma alla notte, chiaro, ma mi dispiace comunque.
La fotocopia del libretto universitario è una delle poche cose che ho tenuto di quegli anni, assieme al libro di chimica (che era costato un patrimonio e sembra un antico tomo da biblioteca polverosa)


e la tavola periodica degli elementi, chissà poi perché. Avevo una buona media, non eccelsa ma decente, però ho dovuto lasciar perdere per uno di quei motivi che erano scritti nei miei diari e adesso saranno già stati trasformati in uno scatolone da una cartiera. Ma non cerco alibi, avrei comunque interrotto gli studi perché ero consapevole che non avrei mai passato lo scoglio di un esame dal nome altisonante di Meccanica Razionale. Evoca grandiosi scenari di conoscenza su uno sfondo di cieli stellati e nebulose, e invece tutto si riassumeva in incomprensibili problemi di dischi in movimento collegati tramite perni e pulegge ad altri dischi più grandi. Ogni volta che guardavo uno di quegli esercizi mi tornava in mente la maestra delle elementari, la terribile signorina Marangoni, e i suoi altrettanto incomprensibili problemi di vasche forate che si riempivano sempre più velocemente di quanto si svuotassero. Lei voleva da me delle risposte che io non sapevo darle (“se entrano 10 litri al secondo ed escono 8 litri al secondo, quanto tempo ci vuole prima che la vasca si riempia e l’acqua esca fuori?”)… o meglio, avrei potuto anche dargliele, ma anche allora ero una bambina molto pratica e non capivo perché non si potesse semplicemente chiudere il rubinetto prima che succedesse il disastro, e questa mia praticità spicciola mi bloccava. E in fondo mi faceva anche sentire in colpa, non solo perché ero una scolara asina, ma anche perché a causa della mia ignoranza la casa si sarebbe presto allagata e l’acqua avrebbe tracimato fino al piano di sotto – e poi chi lo sentiva lo scultore del secondo piano? Ecco, la Meccanica Razionale era la stessa cosa. Il fatto di non vedere un’applicazione immediata e pratica della suddetta materia alla vita reale mi impediva di comprendere, e senza comprensione non avrei mai potuto superare l’esame.
La stessa cosa era successa con l’esame di Geometria, che a dispetto del nome dimesso non si occupava affatto di cerchi e triangoli, ma era la chiave per comprendere anche il multiverso e la meccanica quantistica. L’ho capito troppo tardi, quando ormai mi ero accontentata di un 18 e avevo già deciso di mollare. Peccato. Oppure no? Forse semplicemente non era destino, o forse anche l’università è qualcosa per cui occorre aspettare il momento giusto. Forse potrei ricominciare a studiare adesso che ho più di quarant’anni e i capelli iniziano a ingrigire, facendo tesoro del bagaglio di esperienze e conoscenze accumulate nei venticinque anni che sono passati dal diploma.

…ma forse ci sono troppi forse in questo discorso. Quello che so per certo è che anche questo pezzo della mia vita domani finirà nella pancia del camion della raccolta differenziata, e adesso mi sento più leggera.

giovedì 4 febbraio 2016

Olio di semi di zucca

Curiosi come siamo di scoprire e assaggiare nuove cose, durante una nostra vacanza in Alto Adige abbiamo provato l’olio di semi di zucca, ed è stato amore a prima vista!





Praticamente sconosciuto a sud di Bolzano, questo olio è invece molto conosciuto e apprezzato in Austria, in Germania e in altri paesi del Centro e Est Europa. Quello più rinomato è originario della Stiria, ed è tutelato come prodotto a Indicazione Geografica Protetta. Si ottiene dalla spremitura a freddo dei semi di zucca, ed è un prodotto naturale e non raffinato. E' di colore verde scurissimo, quasi marrone, e ha un sapore molto particolare che ricorda allo stesso tempo le nocciole e la carne arrosto... davvero! Va bene per insaporire praticamente di tutto: noi lo abbiamo provato sulle insalate, sui cereali, sul riso e sulla pasta, sulle uova e sui formaggi, sulle verdure al vapore... In Alto Adige lo avevamo provato anche sulle carni, e si abbina perfettamente anche con quelle. E' un olio che va usato a freddo, aggiunto alla fine sui cibi da insaporire. Onestamente non l'ho mai provato in preparazione cucinate, perché non mi da l'idea di essere un olio che regge bene le cotture. Per i cibi che vanno in forno o cuociono a lungo sul fuoco preferisco usare l'extravergine.

Oltre ad essere buonissimo, ha anche tante ottime qualità che lo rendono prezioso per la nostra salute. Intanto è ricco di minerali come lo zinco e vitamine, specialmente la vitamina E antiossidante, e ha inoltre un alto contenuto di acido oleico e linoleico, acidi grassi buoni che aiutano a tenere basso il livello di grassi nel sangue. Contiene anche steroli vegetali che ci aiutano a combattere il colesterolo, ma soprattutto (e questo vale per i nostri amici uomini), l'olio di semi di zucca è considerato un valido ausilio per i problemi alla prostata, visto che contiene sostanze in grado di proteggerla.
Insomma, e buono e fa pure bene, quindi lo utilizziamo quasi quotidianamente! Oltretutto, per il fatto di essere naturalmente saporito, c'è bisogno di meno sale per condire i cibi, e anche questo fa bene alla salute! Io di solito lo uso in combinazione con semi di cumino e semi di cardamomo macinati, e il risultato è un mix delizioso che si sposa benissimo soprattutto con le verdure cotte di ogni tipo.

L'unico problema di questo prodotto meraviglioso è la sua scarsa reperibilità. Come dicevo all'inizio, a sud di Bolzano è difficilissimo da trovare, e comunque anche in Alto Adige non c'è dappertutto. Fuori dal Sud Tirolo lo si trova solo nei supermercati di prodotti bio più grandi e forniti, e poi naturalmente si può comprare su internet, ma costa uno sproposito, e già non è che sia un prodotto economico di suo (anche se comunque vale ogni centesimo di quello che costa). Se avete la possibilità di passare per l'Alto Adige, per una vacanza o se amate magari andare ai mercatini di Natale, lo potete trovare nella catena di supermercati MPREIS : qui i punti vendita
(beh sì, il sito è in tedesco, ma anche se non capite un accidente di quello che c'è scritto, lo store locator è intuitivo da comprendere: l'Austria è la parte azzurra della cartina, l'Alto Adige è quella bianca)



Tutti quelli a cui lo abbiamo fatto assaggiare hanno apprezzato, quindi ve lo consiglio!

sabato 9 gennaio 2016

Pasta di mandorle facile facile

Su richiesta del mio papà, mi scuoto dal torpore invernale per offrirvi la ricetta dei pasticcini di pasta di mandorle. Questi pasticcini mi sono sempre piaciuti tantissimo, ma chissà perché avevo in testa che fossero difficili da fare. Invece ho scoperto che sono molto semplici e da allora li faccio spesso, anche da regalare. Quest'anno li ho messi nei miei cestini natalizi e hanno avuto un successone!




Per fare la pasta di mandorle occorrono:

200 g di mandorle (se le trovate già tritate fate prima!)
150 g di zucchero di canna
2 albumi
1 fialetta di aroma di mandorla
mandorle, pistacchi o canditi per decorazione.

Tritate grossolanamente le mandorle con il mixer (io uso il macinacaffè), poi aggiungete lo zucchero e tritatele di nuovo per rendere il tutto il più fine possibile.
Mettete tutto in una ciotola, aggiungete gli albumi e la fialetta di aroma e mescolate bene fino a ottenere una massa omogenea leggermente appiccicosa. A questo punto la pasta è pronta per essere modellata. In teoria bisognerebbe mettere l'impasto a piccole dosi in una sac à poche o in una siringa per dolci con il beccuccio rigato, tipo quello per fare i ciuffi di panna montata, e spremere l'impasto per formare i pasticcini di forma classica, ma l'impasto è piuttosto duro, quindi per evitare di fare una fatica bestiale ho fatto delle semplici palline sulle quali ho poi messo una mandorla o un pistacchio (i canditi non mi piacciono...), ma potete fare altre anche altre forme: io ad esempio ne faccio anche una versione per Halloween, le 'Dita di Strega'...



(il procedimento per l'impasto è identico, create le dita formando tanti bastoncini, fate dei taglietti per fare le nocche rugose, e le unghie malefiche sono fatte con una mandorla!)

Una volta fatti i pasticcini, disponeteli su un foglio di carta da forno e lasciateli asciugare per 12 ore, possibilmente all'aria. Se proprio non potete lasciarli scoperti, metteteli nel forno spento tenendo lo sportello leggermente aperto. I pasticcini vanno cotti a 180°C per circa 10-15 minuti a seconda delle dimensioni. Dovranno risultare sodi (ma non duri) all'esterno e morbidi (ma non crudi) all'interno: la pasta cotta è più chiara della pasta cruda, quindi vi basterà aprire un pasticcino per verificare la cottura.

Fate raffreddare, spolverate con lo zucchero a velo se volete, e poi mettete i pasticcini in una scatola di latta o un sacchetto di plastica. Durano a lungo (se non li finite prima!) e come ho detto sono anche una bella idea regalo per ogni stagione!

Come variante, potete fare dei pasticcini ricoperti con il cioccolato fuso, o usare la pasta di mandorle come cuore morbido per una torta.

martedì 10 novembre 2015

Autunno...



Anche se fa un caldo dell’accidente e pare di essere in primavera inoltrata (…con buona pace di chi non crede al riscaldamento globale: venti gradi al 10 di novembre è tutto tranne che normale)


  
è comunque autunno! E l’autunno mi piace tantissimo, forse più dell’inverno – che per me ha un senso solo se nevica, altrimenti è una stagione un po’ insulsa.
Mi piace l’autunno perché…
Beh, per prima cosa perché nonostante tutto fa fresco, e di questi tempi non è cosa da poco. E poi perché dopo una pioggia d’autunno la terra prende un odore più buono di quello che si sente dopo una pioggia estiva. È più forte, più penetrante, più buono, e ha il potere di riportarmi istantaneamente alla mia infanzia quando andavo in montagna a far castagne con mamma e papà.


In autunno finiscono i lavori in giardino e finalmente ci si può concedere un poco di riposo. Si ha più tempo per leggere, per scrivere, per le autoproduzioni e per sistemare la casa. Si ricominciano a mangiare zuppe e polente, castagne e funghi e zucche, e anche le mele al forno con la cannella, che sono una ghiottoneria e fanno subito pensare al Natale; le si può mangiare anche in estate, non lo vieta nessuno, ma sono un po’ posticce e non hanno lo stesso sapore.


E poi possiamo finalmente gustarci una tazza di tè o una tisana, magari alla sera davanti alla tv con un gatto che ci sonnecchia sulle ginocchia.

I colori, in autunno, sono bellissimi. Certo, non abbiamo lo spettacolo strepitoso dei colori del nord America perché da noi manca il rosso degli aceri, ma anche così le nostre montagne e le nostre campagne riescono lo stesso a scaldare il cuore. E anche il giardino più banale o il parco più spelacchiato in autunno diventano spettacolari.


Se si è fortunati, in autunno c’è la nebbia, che tutti detestano ma che io amo quasi quanto la neve, se non un pochino di più. Dipenderà dal fatto che un po’ sono milanese e un po’ sono emiliana, patrie di gran nebbie, almeno in passato. Adesso la si vede raramente, e pure quando capita non è più com’era anche solo vent’anni fa, quando davvero non si vedeva a un passo e talvolta non si dissolveva neanche a mezzogiorno. Adesso più che altro ci sono delle foschie o delle brume che salgono dai campi, ma tutto è bello per chi si sa accontentare, e ogni passeggiata diventa speciale.


Ma forse la cosa che più mi piace dell’autunno è che si comincia ad accendere la stufa, e questo per me è uno dei piccoli, grandi piaceri della vita. Anche il calorifero scalda, ma chiunque lo abbia sperimentato sa che il calore del fuoco scalda in maniera diversa.


Il caldo del termosifone si ferma alla pelle, il fuoco riesce a raggiungere il cuore e la nostra anima più profonda, e va a toccare corde nascoste nella nostra memoria. Che non è fatta solo dai nostri ricordi, ma anche da quelli dei nostri genitori, e dei loro genitori, e di tutti gli antenati che ci hanno preceduto, che almeno un giorno della loro vita hanno allungato le mani verso il fuoco per scaldarsi. E ogni volta che faccio partire la stufa ripetendo gesti antichi come il mondo – gesti che ho scoperto di avere dentro di me senza bisogno che qualcuno me li insegnasse – mi sembra quasi di sentire quegli antichi e sconosciuti progenitori annuire soddisfatti per quello che sto facendo.

mercoledì 14 ottobre 2015

Rigenerazione d'autunno



Mi ci è voluto un po’ per affrontare il Moloch, lo scatolone da me accuratamente relegato nell’angolo più scomodo del garage, quello che conteneva tutti i miei diari. Ricordo che quando ero piccolina, diciamo sette o otto anni, il diario era un regalo consueto, il tipico dono degli scarsi di fantasia che permetteva loro di trarsi d’impaccio con poco, facendo comunque bella figura.
Chissà se nel nuovo millennio esistono ancora diari come quelli?


Lo detestavo, soprattutto per via di quel lucchetto che prometteva segretezza e inviolabilità e invece si poteva forzare con una forcina per capelli. Ci scribacchiavo su qualche cosa, pensierini confusi e qualche disegno, e inevitabilmente dopo qualche tempo finivano dimenticati in un angolo per poi essere buttati alla prima occasione (e allora non c’era neanche la raccolta differenziata; finivano in discarica o negli inceneritori).
Come per tante altre cose, forse per tutte le cose, non era ancora il suo tempo. Sarebbe venuto molti anni dopo, quando ero al primo anno delle superiori. Era primavera inoltrata, avevo 14 anni e abitavo ancora nella casa dove ero cresciuta… molte vite fa, a pensarci bene. Credo di avere cominciato per il motivo per cui tutti iniziano a tenere un diario: per parlare liberamente di tutto quello che mi passava per la testa senza timore di essere interrotta, giudicata o non capita. Scrivevo sui quaderni di scuola, più avanti anche su un paio di Smemoranda, ma solo perché lo facevano tutte le mie amiche ed ero stufa di sentirmi l’unica cretina al mondo che non ce l’aveva. Anno dopo anno, pagina dopo pagina, avevo scritto abbastanza da riempire uno scatolone enorme e pesantissimo, che mi ha seguito trasloco dopo trasloco fin qui in campagna, ma ho sempre avuto un cattivo rapporto con quei quaderni e più di una volta ho avuto la tentazione di gettarli via.

Ho continuato a tenere il diario finché non ho scoperto un altro modo per parlare liberamente di tutto quello che mi passava per la testa, che poi è scrivere storie. E quando ho capito che questo è molto più divertente, entusiasmante, faticoso e stimolante di scrivere banali resoconti delle mie giornate, i diari sono finiti nell’angolo più scomodo del garage, quello dove non vado mai, e dove lo sguardo non arriva mai. Era il 2003, e da allora non ho mai più riaperto quello scatolone. Fino ad ora. Di solito l’impulso a fare certe cose mi arriva in primavera, quando il sole intiepidisce l’aria e si cominciano a tenere le finestre aperte, e si vede tutta la polvere che c’è attorno e la voglia di fare pulizia sgorga dal profondo dell’anima; oppure in autunno, quando i primi freschi spingono a rintanarsi in casa e a far pulizie in vista dell’inverno. E per me è uno stimolo potente, simile a quello che spinge gli animali a migrare.
Il richiamo dello scatolone si faceva di anno in anno sempre più difficile da ignorare, così ho deciso che questa sarebbe stata la volta buona di affrontare il Moloch. Ho aspettato che il mio maritone andasse al lavoro, sono scesa, ho scostato la vecchia affettatrice di mia suocera e l’acquario che mi ostino a tenere nonostante non abbia più i pesci da anni, e ho tirato la scatola in mezzo al garage. Non ho riletto nessuno di quei vecchi quaderni. Mi sono limitata a sfogliarli sommariamente per rimuovere tutte le cose che da ragazzina amavo incollare sulle pagine e che non potevo gettare assieme alla carta. Ne è venuto fuori un mucchietto alquanto eterogeneo… peccato che avessi il cellulare scarico perché avrebbe meritato una foto. C’erano dischetti del computer e vecchie monete, microchip e led rubati nel laboratorio di elettronica alle superiori, stringhe delle scarpe, un posacenere di alluminio, portamonete e campioncini di bagnoschiuma, targhette di ogni tipo e un pezzo della spugna che fungeva da cancellino della lavagna, oggetto diventato di culto nella mia classe dopo essere finito in cima a un albero per mano mia.


Ho tenuto qualcosa, come i vecchi dischetti del computer che a loro modo sono una testimonianza del passato. E poi la copertina di uno di quei diari, quella con su un procione e il numero 14 stampato con i trasferelli, per ricordare a me stessa che niente accade mai per caso (...frase un po' criptica. Un giorno o l'altro ne spiegherò il senso)


Non ho riletto nessuna delle parole scritte su quei quaderni, me ne sono guardata bene. Il mio passato non è sempre stato felice, e non avevo nessuna voglia di andare a scoperchiare vecchi vasi di Pandora e andare a rinnovare dolori e paturnie che faticosamente ero riuscita a lasciarmi alle spalle… tutte le esperienze poco edificanti, le mille paturnie adolescenziali, le paure per i compiti in classe, i piccoli e grandi batticuori per un ragazzo, i problemi con mia madre...
Ma non ho letto niente neanche quando sapevo che su quel particolare quaderno avrei trovato degli episodi più piacevoli e innocui, perché comunque quei pensieri appartenevano ad una persona diversa da quella che sta scrivendo queste righe, e per me non significavano più niente. Sarebbe stato come leggere i racconti di un estraneo. Il passato è passato, sta bene dove sta, e nel mio caso adesso sta bene nella pancia del camion della raccolta della carta. Diventerà altra carta con la quale magari realizzeranno un altro diario per ragazzine, o uno scatolone dove stivare vecchie memorie, e il cerchio si chiuderà. Per conto mio adesso mi sento più leggera.

giovedì 10 settembre 2015

Settembre, finalmente...



Finalmente il fresco, il vento e le nuvole nel cielo di nuovo azzurro! Finalmente si può stare fuori a passeggiare o a lavorare, e l’aria è frizzante e piacevole. Finalmente non si è più costretti a vivere sigillati in casa, con le finestre chiuse e le imposte sbarrate per tenere fuori il caldo violento che in questa lunga estate calda aveva assunto una consistenza quasi fisica. Il caldo lo potevi toccare, perché l’aria era diventata talmente spessa che più che respirarla ti pareva quasi di masticarla. E nel biancore abbacinante del mondo che si cuoceva sotto quel sole cattivo, persino le ombre sembravano svanire, prosciugate da un caldo inumano. D’accordo, non è stato come nel 2003, ma solo perché allora era durata cinque mesi pieni, da maggio a settembre, mentre quest’anno è stato più breve. Per il resto è stato lo stesso incubo a occhi aperti, un incubo di sudore e di immobilità forzata perché anche l’attività più insignificante era capace di sfiancarti.
Ma forse la cosa che più mi ha impressionato, in questa mia estate a 40°C, è stata il deserto delle persone attorno a me. Le poche volte che un impegno mi strappava dal fresco effimero della casa per buttarmi fuori in quell’inferno, mi sembrava di muovermi in uno di quegli scenari post-apocalittici da ‘ultimo uomo sulla Terra’. A parte le due o tre ore più fresche al primo mattino, dopo le 9 non c’era in giro più nessuno fino alla tarda sera. Nessuno per le strade, nessuno in paese, nessuno a fare la fila alla fontana dietro al municipio a prendere ‘l’acqua del sindaco’. Ma anche nessun animale in giro, o uccelli nel cielo, faceva troppo caldo anche per loro. Le uniche a sembrare felici erano le cicale, che dalla cima degli alberi intonavano per noi la loro musica struggente; ma sappiamo bene dalle antiche storie che non sono animali molto svegli, altrimenti non si farebbero fare la morale da un branco di formiche saccenti che invece hanno passato l’estate a rubare avanzi di cibo dai secchi dei rifiuti.
Tutto questo mi ha riportato alla mente le estati della mia infanzia al mare, in Molise, trascorse nella casa degli zii paterni. Parliamo della fine degli anni ’70, qualcosa come due o tre ere geologiche fa… un mondo diversissimo da quello di oggi. E, suppongo, anche un caldo diverso da quello di oggi. Dubito che anche allora ci fossero giorni in cui c’erano 32°C in casa come è capitato qui, e in ogni caso ero una bimbetta di 5 o 6 anni e a quell’età caldo e freddo sono concetti molto relativi; il caldo lo vedevo riflesso sui grandi che passavano il tempo a sventolarsi con ventagli colorati, ma non ricordo di averlo patito. Quello che invece ricordo bene erano i lunghi pomeriggi di noia trascorsi inventando giochi silenziosi mentre gli adulti dormivano per sopportare meglio le ore più calde della giornata: subito dopo pranzo venivano calate le tapparelle e si accostavano le finestre, e per le due o tre ore successive l’unica cosa che si sentiva era il russare deciso di mio padre e il canto potente delle cicale. Visto che pativo anche allora l’essere reclusa, di tanto in tanto mi infilavo sotto una tapparella e uscivo sul balcone a guardare il mondo, e quello che vedevo era lo stesso nulla che si vedeva anche qui. Persino la statale, che allora passava a pochi passi dalla casa degli zii, era per lo più deserta; passava solo qualche camion, facendo un rumore particolare che ancora adesso, quando lo sento, mi riporta a quegli anni.
Ecco, quando penso al sud e alle vacanze della mia infanzia, è questo ciò che mi viene in mente: strade vuote, tapparelle abbassate, finestre chiuse, cicale, un sole che stampa ombre nerissime sull’asfalto, pomeriggi di noia.


Rivivere le stesse cose qui e ora, in un altro luogo e in un altro tempo – riviverli da adulta – è spiazzante. Mi fa vivere in un eterno déjà vu, mi fa credere che il tempo (non solo quello atmosferico) si sia incasinato e non stia più scorrendo come dovrebbe.
È anche per questo che sono contenta che sia settembre, finalmente.

giovedì 21 maggio 2015

Mini-guida alla panificazione

Visto che molti amici mi hanno chiesto come faccio il mio pane, ho preparato un bigino di panificazione!


Premessa fondamentale: io non uso la pasta madre. Sarà pure buonissima, non lo metto in dubbio, ma trovo che sia davvero poco pratica, a cominciare dal fatto che servono molte settimane di lavorazione prima di ottenere una PM in grado di lievitare il pane come si deve (mesi, addirittura). Sia in questi periodo che successivamente dovrò fare continui rinfreschi della pasta, che ne abbia voglia/tempo oppure no... e da tutti questi rinfreschi avrò quantità industriali di pasta scartata dalla PM in lavorazione da utilizzare in qualche modo, perché gettarla è un peccato. Posso sempre congelarla o usarla per fare piadine, cracker e grissini, ma se a casa si è solo in due si corre il serio rischio di riempirsi il freezer di impasti, cracker e piadine che si accumuleranno settimana dopo settimana. Senza contare il fatto che per lievitare un chilo di farina serve tanta pasta madre, con conseguente ampio avanzo di pasta dal rinfresco, e per fare una pagnotta devo stare in ballo due-tre giorni tra attivazione della PM e successiva lievitazione... insomma, preferisco evitare ed usare il tanto vituperato cubetto di lievito di birra!

Questa, comunque, è la mia ricetta per fare il pane. Servono:
1kg farina
20 g sale
2 cubetti di lievito da 25 g
acqua qb (circa 500 ml)
1 cucchiaino di zucchero

Faccio sciogliere il lievito in un pentolino con poca acqua tiepida, aggiungo un cucchiaino di zucchero, mescolo bene e faccio riposare 15-20 minuti possibilmente al caldo (vicino a un calorifero in inverno o sotto al sole in estate) finché non inizia a formarsi un po’ di schiuma in superficie. Questo attiva i lieviti.
Metto la farina e il sale in una ciotola capiente, mescolo bene, poi aggiungo l’acqua con il lievito. Inizio a mescolare con un cucchiaio di legno aggiungendo ancora acqua poco alla volta fino a ottenere un impasto morbido. A occhio capisco che va bene quando l’impasto inizia a staccarsi dalle pareti della ciotola e fa la palla.
A questo punto trasferisco l’impasto sulla spianatoia infarinata e inizio a lavorare il pane con le mani. L’ideale sarebbe impastare per 20 minuti, ma lo dicono quelli che usano le impastatrici! Diciamo che più si impasta e più il pane verrà morbido. Se si riesce a fare una decina di minuti va benone (…io lo trovo anche piuttosto zen, una forma di meditazione!)
Quando sono stufa di impastare, infarino per bene la palla di pasta, la rimetto nella ciotola, la copro con un foglio di pellicola trasparente e la metto in un luogo caldo a lievitare per almeno 4 ore. L’ideale sono 8 ore, e spesso lo lascio lievitare tutta la notte. Se non è stagione di caloriferi o il sole non c’è, un ottimo posto per la lievitazione è il forno appena intiepidito (non è necessario lasciarlo acceso tutto il tempo, basta la scaldatina iniziale)

Finita la lievitazione, riprendo l’impasto, tolgo la pellicola e lo rimetto sulla spianatoia (servirà altra farina per staccarlo dalla ciotola). Lo lavoro di nuovo per qualche minuto per amalgamare la farina che ho aggiunto, poi lo taglio nelle forme che voglio. Sia che faccia pagnotte o panini, faccio sempre dei tagli sulla superficie per aiutare la seconda lievitazione.
Faccio riposare i pani ancora 30 minuti, poi inforno a circa 220°C per una mezz’ora: questi dati sono indicativi e dipendono dal forno. Se vedete che il pane viene bruciato abbassate la temperatura e allungate i tempi di cottura. In ogni caso il pane è cotto bene quando, picchiettando sul fondo, sentite il tipico rumore di ‘vuoto’, come per l’anguria buona!


Le dosi della farina devono essere il più possibile esatte, senza essere comunque maniacali; se impastate 900 g o 1100 g va bene lo stesso.
La quantità di acqua dipende dal tipo di farina che usate: le farine integrali o di segale assorbono più acqua di quelle raffinate. Sconsiglio comunque di usare la farina 00 per fare il pane, e non solo per quello, perché è troppo raffinata e fa male alla salute. L’ideale per la panificazione è la farina semi-integrale tipo 2, perché si può usare così com’e per ricette dolci e salate senza tagliarla con farine più raffinate. Le farine integrali, infatti, da sole lievitano poco e vanno per forza tagliate. Il problema è che la farina tipo 2 la trovi solo nei mulini con vendita al pubblico… provate a cercare su internet se ce n’è uno dalle vostre parti! In alternativa potete fare una miscela di farina integrale e farina tipo 0.  Per fare il pane potete arrivare al 60% di integrale (e quindi 40% di farina 0), per i dolci abbassate la percentuale di farina integrale al 50% o anche al 40%. In ogni caso la farina 0 va bene anche per i dolci.

All'impasto potete aggiungere semi di finocchio, di cumino, noci, nocciole, semi di lino e di girasole... sperimentate in allegria!

L’impasto lievitato si può congelare. Tiratelo fuori la mattina per cuocerlo la sera o viceversa. Dovrete solo lavorarlo per qualche minuto con un poco di farina, dargli la forma che volete, farlo riposare 30 minuti e poi infornare.

Questa ricetta va bene anche per pizza e focaccia, l’unica differenza è che dovete aggiungere dell’olio EVO all’impasto: 6-7 cucchiai per la pizza, 8-9 per la focaccia. Quando l’impasto è lievitato stendetelo in una teglia, farcitelo come volete, fatelo riposare qualche minuto intanto che si scalda il forno, poi cuocete a 220-230°C per 25 minuti circa.