Su richiesta del mio papà, mi scuoto dal torpore invernale per offrirvi la ricetta dei pasticcini di pasta di mandorle. Questi pasticcini mi sono sempre piaciuti tantissimo, ma chissà perché avevo in testa che fossero difficili da fare. Invece ho scoperto che sono molto semplici e da allora li faccio spesso, anche da regalare. Quest'anno li ho messi nei miei cestini natalizi e hanno avuto un successone!
Per fare la pasta di mandorle occorrono:
200 g di mandorle (se le trovate già tritate fate prima!)
150 g di zucchero di canna
2 albumi
1 fialetta di aroma di mandorla
mandorle, pistacchi o canditi per decorazione.
Tritate grossolanamente le mandorle con il mixer (io uso il macinacaffè), poi aggiungete lo zucchero e tritatele di nuovo per rendere il tutto il più fine possibile.
Mettete tutto in una ciotola, aggiungete gli albumi e la fialetta di aroma e mescolate bene fino a ottenere una massa omogenea leggermente appiccicosa. A questo punto la pasta è pronta per essere modellata. In teoria bisognerebbe mettere l'impasto a piccole dosi in una sac à poche o in una siringa per dolci con il beccuccio rigato, tipo quello per fare i ciuffi di panna montata, e spremere l'impasto per formare i pasticcini di forma classica, ma l'impasto è piuttosto duro, quindi per evitare di fare una fatica bestiale ho fatto delle semplici palline sulle quali ho poi messo una mandorla o un pistacchio (i canditi non mi piacciono...), ma potete fare altre anche altre forme: io ad esempio ne faccio anche una versione per Halloween, le 'Dita di Strega'...
(il procedimento per l'impasto è identico, create le dita formando tanti bastoncini, fate dei taglietti per fare le nocche rugose, e le unghie malefiche sono fatte con una mandorla!)
Una volta fatti i pasticcini, disponeteli su un foglio di carta da forno e lasciateli asciugare per 12 ore, possibilmente all'aria. Se proprio non potete lasciarli scoperti, metteteli nel forno spento tenendo lo sportello leggermente aperto. I pasticcini vanno cotti a 180°C per circa 10-15 minuti a seconda delle dimensioni. Dovranno risultare sodi (ma non duri) all'esterno e morbidi (ma non crudi) all'interno: la pasta cotta è più chiara della pasta cruda, quindi vi basterà aprire un pasticcino per verificare la cottura.
Fate raffreddare, spolverate con lo zucchero a velo se volete, e poi mettete i pasticcini in una scatola di latta o un sacchetto di plastica. Durano a lungo (se non li finite prima!) e come ho detto sono anche una bella idea regalo per ogni stagione!
Come variante, potete fare dei pasticcini ricoperti con il cioccolato fuso, o usare la pasta di mandorle come cuore morbido per una torta.
Chi sono
- S.M.Geesbrug
- Una nuova vita in campagna con un marito, un numero variabile di gatti e un cane con un solo neurone. La passione per la musica classica e per i borghi medievali, per la spiritualità dei Nativi Americani e per i misteri irrisolti, per le autoproduzioni e il vivere consapevole. Questa è la mia vita. Queste sono le mie storie.
sabato 9 gennaio 2016
martedì 10 novembre 2015
Autunno...
Anche
se fa un caldo dell’accidente e pare di essere in primavera inoltrata (…con
buona pace di chi non crede al riscaldamento globale: venti gradi al 10
di novembre è tutto tranne che normale)
è comunque autunno! E l’autunno
mi piace tantissimo, forse più dell’inverno – che per me ha un senso solo
se nevica, altrimenti è una stagione un po’ insulsa.
Mi
piace l’autunno perché…
Beh, per prima cosa perché nonostante tutto fa fresco, e di questi tempi non è cosa
da poco. E poi perché dopo una pioggia d’autunno la terra prende un odore più
buono di quello che si sente dopo una pioggia estiva. È più forte, più
penetrante, più buono, e ha il potere di riportarmi istantaneamente alla mia
infanzia quando andavo in montagna a far castagne con mamma e papà.
In
autunno finiscono i lavori in giardino e finalmente ci si può concedere un poco
di riposo. Si ha più tempo per leggere, per scrivere, per le autoproduzioni e
per sistemare la casa. Si ricominciano a mangiare zuppe e polente, castagne e
funghi e zucche, e anche le mele al forno con la cannella, che sono una
ghiottoneria e fanno subito pensare al Natale; le si può mangiare anche in
estate, non lo vieta nessuno, ma sono un po’ posticce e non hanno lo stesso
sapore.
E poi possiamo finalmente gustarci una tazza di tè o una tisana, magari
alla sera davanti alla tv con un gatto che ci sonnecchia sulle ginocchia.
I colori, in autunno, sono bellissimi. Certo, non abbiamo lo spettacolo
strepitoso dei colori del nord America perché da noi manca il rosso degli
aceri, ma anche così le nostre montagne e le nostre campagne riescono lo stesso
a scaldare il cuore. E anche il giardino più banale o il parco più spelacchiato
in autunno diventano spettacolari.
Ma
forse la cosa che più mi piace dell’autunno è che si comincia ad accendere la
stufa, e questo per me è uno dei piccoli, grandi piaceri della vita. Anche il
calorifero scalda, ma chiunque lo abbia sperimentato sa che il calore del fuoco
scalda in maniera diversa.
Il caldo del termosifone si ferma alla pelle, il
fuoco riesce a raggiungere il cuore e la nostra anima più profonda, e va a
toccare corde nascoste nella nostra memoria. Che non è fatta solo dai nostri
ricordi, ma anche da quelli dei nostri genitori, e dei loro genitori, e di
tutti gli antenati che ci hanno preceduto, che almeno un giorno della loro vita
hanno allungato le mani verso il fuoco per scaldarsi. E ogni volta che faccio
partire la stufa ripetendo gesti antichi come il mondo – gesti che ho scoperto
di avere dentro di me senza bisogno che qualcuno me li insegnasse – mi sembra
quasi di sentire quegli antichi e sconosciuti progenitori annuire soddisfatti
per quello che sto facendo.
mercoledì 14 ottobre 2015
Rigenerazione d'autunno
Mi ci è
voluto un po’ per affrontare il Moloch, lo scatolone da me accuratamente
relegato nell’angolo più scomodo del garage, quello che conteneva tutti i miei
diari. Ricordo che quando ero piccolina, diciamo sette o otto anni, il diario
era un regalo consueto, il tipico dono degli scarsi di fantasia che permetteva
loro di trarsi d’impaccio con poco, facendo comunque bella figura.
Chissà se
nel nuovo millennio esistono ancora diari come quelli?
Lo
detestavo, soprattutto per via di quel lucchetto che prometteva segretezza e
inviolabilità e invece si poteva forzare con una forcina per capelli. Ci
scribacchiavo su qualche cosa, pensierini confusi e qualche disegno, e
inevitabilmente dopo qualche tempo finivano dimenticati in un angolo per poi
essere buttati alla prima occasione (e allora non c’era neanche la raccolta
differenziata; finivano in discarica o negli inceneritori).
Come per tante
altre cose, forse per tutte le cose, non era ancora il suo tempo. Sarebbe venuto
molti anni dopo, quando ero al primo anno delle superiori. Era primavera
inoltrata, avevo 14 anni e abitavo ancora nella casa dove ero cresciuta… molte
vite fa, a pensarci bene. Credo di avere cominciato per il motivo per cui tutti
iniziano a tenere un diario: per parlare liberamente di tutto quello che mi
passava per la testa senza timore di essere interrotta, giudicata o non capita.
Scrivevo sui quaderni di scuola, più avanti anche su un paio di Smemoranda, ma
solo perché lo facevano tutte le mie amiche ed ero stufa di sentirmi l’unica
cretina al mondo che non ce l’aveva. Anno dopo anno, pagina dopo pagina, avevo
scritto abbastanza da riempire uno scatolone enorme e pesantissimo, che mi ha
seguito trasloco dopo trasloco fin qui in campagna, ma ho sempre avuto un cattivo rapporto con quei
quaderni e più di una volta ho avuto la tentazione di gettarli via.
Ho
continuato a tenere il diario finché non ho scoperto un altro modo per parlare
liberamente di tutto quello che mi passava per la testa, che poi è scrivere
storie. E quando ho capito che questo è molto più divertente, entusiasmante,
faticoso e stimolante di scrivere banali resoconti delle mie giornate, i diari
sono finiti nell’angolo più scomodo del garage, quello dove non vado mai, e
dove lo sguardo non arriva mai. Era il 2003, e da allora non ho mai più
riaperto quello scatolone. Fino ad ora. Di solito l’impulso a fare certe cose
mi arriva in primavera, quando il sole intiepidisce l’aria e si cominciano a
tenere le finestre aperte, e si vede tutta la polvere che c’è attorno e la
voglia di fare pulizia sgorga dal profondo dell’anima; oppure in autunno,
quando i primi freschi spingono a rintanarsi in casa e a far pulizie in vista
dell’inverno. E per me è uno stimolo potente, simile a quello che spinge gli
animali a migrare.
Il richiamo
dello scatolone si faceva di anno in anno sempre più difficile da ignorare,
così ho deciso che questa sarebbe stata la volta buona di affrontare il Moloch.
Ho aspettato che il mio maritone andasse al lavoro, sono scesa, ho scostato la
vecchia affettatrice di mia suocera e l’acquario che mi ostino a tenere
nonostante non abbia più i pesci da anni, e ho tirato la scatola in mezzo al
garage. Non ho riletto nessuno di quei vecchi quaderni. Mi sono limitata a
sfogliarli sommariamente per rimuovere tutte le cose che da ragazzina amavo
incollare sulle pagine e che non potevo gettare assieme alla carta. Ne è venuto
fuori un mucchietto alquanto eterogeneo… peccato che avessi il cellulare
scarico perché avrebbe meritato una foto. C’erano dischetti del computer e
vecchie monete, microchip e led rubati nel laboratorio di elettronica alle
superiori, stringhe delle scarpe, un posacenere di alluminio, portamonete e
campioncini di bagnoschiuma, targhette di ogni tipo e un pezzo della spugna che
fungeva da cancellino della lavagna, oggetto diventato di culto nella mia classe dopo essere
finito in cima a un albero per mano mia.
Ho tenuto qualcosa, come i vecchi dischetti del computer che a loro modo sono una testimonianza del passato. E poi la copertina di uno di quei diari, quella con su un procione e il numero 14 stampato con i trasferelli, per ricordare a me stessa che niente accade mai per caso (...frase un po' criptica. Un giorno o l'altro ne spiegherò il senso)
Non ho
riletto nessuna delle parole scritte su quei quaderni, me ne sono guardata
bene. Il mio passato non è sempre stato felice, e non avevo nessuna voglia di
andare a scoperchiare vecchi vasi di Pandora e andare a rinnovare dolori e
paturnie che faticosamente ero riuscita a lasciarmi alle spalle… tutte le esperienze
poco edificanti, le mille paturnie adolescenziali, le paure per i compiti in
classe, i piccoli e grandi batticuori per un ragazzo, i problemi con mia madre...
Ma non ho
letto niente neanche quando sapevo che su quel particolare quaderno avrei
trovato degli episodi più piacevoli e innocui, perché comunque quei pensieri
appartenevano ad una persona diversa da quella che sta scrivendo queste righe,
e per me non significavano più niente. Sarebbe stato come leggere i racconti di
un estraneo. Il passato è passato, sta bene dove sta, e nel mio caso adesso sta
bene nella pancia del camion della raccolta della carta. Diventerà altra carta
con la quale magari realizzeranno un altro diario per ragazzine, o uno
scatolone dove stivare vecchie memorie, e il cerchio si chiuderà. Per conto
mio adesso mi sento più leggera.
giovedì 10 settembre 2015
Settembre, finalmente...
Finalmente il fresco, il vento e le nuvole nel cielo di
nuovo azzurro! Finalmente si può stare fuori a passeggiare o a lavorare, e
l’aria è frizzante e piacevole. Finalmente non si è più costretti a vivere
sigillati in casa, con le finestre chiuse e le imposte sbarrate per tenere
fuori il caldo violento che in questa lunga estate calda aveva assunto una
consistenza quasi fisica. Il caldo lo potevi toccare, perché l’aria era diventata
talmente spessa che più che respirarla ti pareva quasi di masticarla. E nel
biancore abbacinante del mondo che si cuoceva sotto quel sole cattivo, persino
le ombre sembravano svanire, prosciugate da un caldo inumano. D’accordo, non è
stato come nel 2003, ma solo perché allora era durata cinque mesi pieni, da
maggio a settembre, mentre quest’anno è stato più breve. Per il resto è stato
lo stesso incubo a occhi aperti, un incubo di sudore e di immobilità forzata
perché anche l’attività più insignificante era capace di sfiancarti.
Ma forse la cosa che più mi ha impressionato, in questa mia
estate a 40°C, è stata il deserto delle persone attorno a me. Le poche volte
che un impegno mi strappava dal fresco effimero della casa per buttarmi fuori
in quell’inferno, mi sembrava di muovermi in uno di quegli scenari
post-apocalittici da ‘ultimo uomo sulla Terra’. A parte le due o tre ore più
fresche al primo mattino, dopo le 9 non c’era in giro più nessuno fino alla
tarda sera. Nessuno per le strade, nessuno in paese, nessuno a fare la fila
alla fontana dietro al municipio a prendere ‘l’acqua del sindaco’. Ma anche
nessun animale in giro, o uccelli nel cielo, faceva troppo caldo anche per
loro. Le uniche a sembrare felici erano le cicale, che dalla cima degli alberi intonavano
per noi la loro musica struggente; ma sappiamo bene dalle antiche storie che
non sono animali molto svegli, altrimenti non si farebbero fare la morale da un branco di formiche saccenti che invece hanno passato l’estate a rubare avanzi di cibo dai
secchi dei rifiuti.
Tutto questo mi ha riportato alla mente le estati della mia
infanzia al mare, in Molise, trascorse nella casa degli zii paterni. Parliamo
della fine degli anni ’70, qualcosa come due o tre ere geologiche fa… un mondo
diversissimo da quello di oggi. E, suppongo, anche un caldo diverso da quello
di oggi. Dubito che anche allora ci fossero giorni in cui c’erano 32°C in casa
come è capitato qui, e in ogni caso ero una bimbetta di 5 o 6 anni e a
quell’età caldo e freddo sono concetti molto relativi; il caldo lo vedevo
riflesso sui grandi che passavano il tempo a sventolarsi con ventagli colorati,
ma non ricordo di averlo patito. Quello che invece ricordo bene erano i
lunghi pomeriggi di noia trascorsi inventando giochi silenziosi mentre gli
adulti dormivano per sopportare meglio le ore più calde della giornata: subito
dopo pranzo venivano calate le tapparelle e si accostavano le finestre, e per
le due o tre ore successive l’unica cosa che si sentiva era il russare deciso
di mio padre e il canto potente delle cicale. Visto che pativo anche allora
l’essere reclusa, di tanto in tanto mi infilavo sotto una tapparella e uscivo
sul balcone a guardare il mondo, e quello che vedevo era lo stesso nulla che si
vedeva anche qui. Persino la statale, che allora passava a pochi passi dalla
casa degli zii, era per lo più deserta; passava solo qualche camion, facendo un
rumore particolare che ancora adesso, quando lo sento, mi riporta a quegli
anni.
Ecco, quando penso al sud e alle vacanze della mia infanzia,
è questo ciò che mi viene in mente: strade vuote, tapparelle abbassate,
finestre chiuse, cicale, un sole che stampa ombre nerissime sull’asfalto,
pomeriggi di noia.
Rivivere le stesse cose qui e ora, in un altro luogo e in un altro tempo – riviverli da adulta – è spiazzante. Mi fa vivere in un eterno déjà vu, mi fa credere che il tempo (non solo quello atmosferico) si sia incasinato e non stia più scorrendo come dovrebbe.
È anche per questo che sono contenta che sia settembre,
finalmente.
giovedì 21 maggio 2015
Mini-guida alla panificazione
Visto che molti amici mi hanno chiesto come faccio il mio pane, ho preparato un bigino di panificazione!
Premessa fondamentale: io non uso la pasta madre. Sarà pure buonissima, non lo metto in dubbio, ma trovo che sia davvero poco pratica, a cominciare dal fatto che servono molte settimane di lavorazione prima di ottenere una PM in grado di lievitare il pane come si deve (mesi, addirittura). Sia in questi periodo che successivamente dovrò fare continui rinfreschi della pasta, che ne abbia voglia/tempo oppure no... e da tutti questi rinfreschi avrò quantità industriali di pasta scartata dalla PM in lavorazione da utilizzare in qualche modo, perché gettarla è un peccato. Posso sempre congelarla o usarla per fare piadine, cracker e grissini, ma se a casa si è solo in due si corre il serio rischio di riempirsi il freezer di impasti, cracker e piadine che si accumuleranno settimana dopo settimana. Senza contare il fatto che per lievitare un chilo di farina serve tanta pasta madre, con conseguente ampio avanzo di pasta dal rinfresco, e per fare una pagnotta devo stare in ballo due-tre giorni tra attivazione della PM e successiva lievitazione... insomma, preferisco evitare ed usare il tanto vituperato cubetto di lievito di birra!
Questa, comunque, è la mia ricetta per fare il pane. Servono:
Premessa fondamentale: io non uso la pasta madre. Sarà pure buonissima, non lo metto in dubbio, ma trovo che sia davvero poco pratica, a cominciare dal fatto che servono molte settimane di lavorazione prima di ottenere una PM in grado di lievitare il pane come si deve (mesi, addirittura). Sia in questi periodo che successivamente dovrò fare continui rinfreschi della pasta, che ne abbia voglia/tempo oppure no... e da tutti questi rinfreschi avrò quantità industriali di pasta scartata dalla PM in lavorazione da utilizzare in qualche modo, perché gettarla è un peccato. Posso sempre congelarla o usarla per fare piadine, cracker e grissini, ma se a casa si è solo in due si corre il serio rischio di riempirsi il freezer di impasti, cracker e piadine che si accumuleranno settimana dopo settimana. Senza contare il fatto che per lievitare un chilo di farina serve tanta pasta madre, con conseguente ampio avanzo di pasta dal rinfresco, e per fare una pagnotta devo stare in ballo due-tre giorni tra attivazione della PM e successiva lievitazione... insomma, preferisco evitare ed usare il tanto vituperato cubetto di lievito di birra!
Questa, comunque, è la mia ricetta per fare il pane. Servono:
1kg farina
20 g sale
2 cubetti di lievito da 25 g
acqua qb (circa 500 ml)
1 cucchiaino di zucchero
Faccio sciogliere il lievito in un pentolino con poca acqua
tiepida, aggiungo un cucchiaino di zucchero, mescolo bene e faccio riposare 15-20
minuti possibilmente al caldo (vicino a un calorifero in inverno o sotto al
sole in estate) finché non inizia a formarsi un po’ di schiuma in superficie.
Questo attiva i lieviti.
Metto la farina e il sale in una ciotola capiente, mescolo
bene, poi aggiungo l’acqua con il lievito. Inizio a mescolare con un cucchiaio
di legno aggiungendo ancora acqua poco alla volta fino a ottenere un impasto
morbido. A occhio capisco che va bene quando l’impasto inizia a staccarsi dalle
pareti della ciotola e fa la palla.
A questo punto trasferisco l’impasto sulla spianatoia
infarinata e inizio a lavorare il pane con le mani. L’ideale sarebbe impastare
per 20 minuti, ma lo dicono quelli che usano le impastatrici! Diciamo che più
si impasta e più il pane verrà morbido. Se si riesce a fare una decina di minuti va
benone (…io lo trovo anche piuttosto zen, una forma di meditazione!)
Quando sono stufa di impastare, infarino per bene la palla di
pasta, la rimetto nella ciotola, la copro con un foglio di pellicola trasparente
e la metto in un luogo caldo a lievitare per almeno 4 ore. L’ideale
sono 8 ore, e spesso lo lascio lievitare tutta la notte. Se non è stagione di caloriferi o il sole non c’è, un ottimo posto per
la lievitazione è il forno appena intiepidito (non è necessario lasciarlo
acceso tutto il tempo, basta la scaldatina iniziale)
Finita la lievitazione, riprendo l’impasto, tolgo la
pellicola e lo rimetto sulla spianatoia (servirà altra farina per staccarlo
dalla ciotola). Lo lavoro di nuovo per qualche minuto per amalgamare la farina
che ho aggiunto, poi lo taglio nelle forme che voglio. Sia che faccia pagnotte
o panini, faccio sempre dei tagli sulla superficie per
aiutare la seconda lievitazione.
Faccio riposare i pani ancora 30 minuti, poi inforno a
circa 220°C per una mezz’ora: questi dati sono indicativi e dipendono dal forno. Se vedete che il pane viene bruciato abbassate la temperatura e allungate i
tempi di cottura. In ogni caso il pane è cotto bene quando, picchiettando sul
fondo, sentite il tipico rumore di ‘vuoto’, come per l’anguria buona!
Le dosi della farina devono essere il più possibile esatte,
senza essere comunque maniacali; se impastate 900 g o 1100 g va bene lo stesso.
La quantità di acqua dipende dal tipo di farina
che usate: le farine integrali o di segale assorbono più acqua di quelle
raffinate. Sconsiglio comunque di usare la farina 00 per fare il pane, e
non solo per quello, perché è troppo raffinata e fa male alla salute. L’ideale
per la panificazione è la farina semi-integrale tipo 2, perché si può
usare così com’e per ricette dolci e salate senza tagliarla con farine più
raffinate. Le farine integrali, infatti, da sole lievitano poco e vanno per
forza tagliate. Il problema è che la farina tipo 2 la trovi solo nei mulini con
vendita al pubblico… provate a cercare su internet se ce n’è uno dalle vostre parti!
In alternativa potete fare una miscela di farina integrale e farina tipo 0. Per fare il pane potete arrivare al 60% di
integrale (e quindi 40% di farina 0), per i dolci abbassate la percentuale di
farina integrale al 50% o anche al 40%. In ogni caso la farina 0 va bene anche
per i dolci.
All'impasto potete aggiungere semi di finocchio, di cumino, noci, nocciole, semi di lino e di girasole... sperimentate in allegria!
L’impasto lievitato si può congelare. Tiratelo fuori la
mattina per cuocerlo la sera o viceversa. Dovrete solo lavorarlo per qualche minuto con
un poco di farina, dargli la forma che volete, farlo riposare 30 minuti e poi
infornare.
Questa ricetta va bene anche per pizza e focaccia, l’unica
differenza è che dovete aggiungere dell’olio EVO all’impasto: 6-7 cucchiai per la
pizza, 8-9 per la focaccia. Quando l’impasto è lievitato stendetelo in una
teglia, farcitelo come volete, fatelo riposare qualche minuto intanto che si
scalda il forno, poi cuocete a 220-230°C per 25 minuti circa.
martedì 19 maggio 2015
Piccola storia di campagna
...l'immagine si vede poco, quindi vi dico io quello che c'è scritto...
"Per la vostra salute e per la
protezione dell’ambiente è necessario rispettare le seguenti precauzioni
Non
usare seme trattato per alimentazione umana, animale o per altre produzioni.
Tenere
lontano dalla portata dei bambini, degli animali domestici e della fauna
selvatica.
I sacchi
contenenti i semi trattati devono essere maneggiati con cautela.
Evitare
il contatto con la pelle e le vie respiratorie.
Rimuovere
qualsiasi spargimento accidentale di seme trattato.
Non
contaminare le acque superficiali con semi trattati
Evitare
l’esposizione alle polveri durante lì apertura dei sacchi di seme trattato, il
riempimento e lo svuotamento della seminatrice.
Per la
protezione dei mammiferi e degli uccelli, i semi trattati devono essere
interrati alla corretta profondità anche alla fine delle file di semina. - Principio attivo Celest XL"
Ora, siccome per certe cose sono un po' fanatica, sono andata a cercarmi su google cos'è questo Celest XL, e quello che ho trovato non è affatto rassicurante:
"È un
fungicida per la concia delle sementi dotato di lunga attività residuale e
lunga persistenza, che penetrando nelle radici viene trasportato e distribuito
con la linfa nelle diverse parti della pianta."
Scavando un pochino di più in internet si può anche scoprire che questo 'sano' prodotto agricolo è stato revocato più di dieci anni fa. Si poteva utilizzare grazie a una deroga fino al 2013, e da quella data si possono soltanto terminare le scorte a magazzino.
ELENCO
PRODOTTI FITOSANITARI REVOCATI - ICPS
CELEST
XL, 05/02/2003
Quindi, riassumendo... è perfettamente lecito utilizzare e seminare semi trattati con sostanze tossiche per gli uomini e per gli animali. Sostanze che finiscono nel terreno e poi, attraverso le radici, vengono assorbite dalla pianta e lì restano finchè la pianta medesima non viene tagliata, tritata e data in pasto alle mucche che fanno il latte, e ai manzi che finiscono nel nostro piatto come bistecche. Direi che alla fine della storia il mio personaggio dei fumetti avrebbe finito di saltare e avrebbe perso tutti i capelli, perchè gli sarebbe venuto il cancro.
Tutto questo l'ho scoperto per caso andando a passeggio con il cane, e adesso non riesco più a guardare i campi con la stessa simpatia di prima, perchè mi viene spontaneo chiedermi quante altre sostanze tossiche e pericolose come il Celest XL delle sementi Monsanto (sementi ogm? L'etichetta spergiurava di no, ma diceva anche che una certa contaminazione è sempre possibile) vengono utilizzate ogni giorno nell'agricoltura. Troppe, temo... forse era meglio non sapere, vero?
Purtroppo il mio giardino non è grande abbastanza per coltivare tutto quello di cui ho bisogno, devo per forza comprare qualcosa, e non sempre ho la possibilità di comprare biologico perchè nonostante tutto i prezzi rimangono proibitivi per la maggior parte di noi comuni mortali. Cerco quindi di comprare e di mangiare più sano possibile, evitando di introdurre alimenti raffinati o con additivi, e lavo sempre bene con acqua e bicarbonato la frutta e la verdura, ma sono consapevole che non basta. Si va avanti tenendo le dita incrociate, nella speranza che tutte le schifezze che ingurgitiamo e respiriamo non vadano ad incasinare le nostre cellule, con tutto quello che ne consegue...
Benvenuti nel futuro????
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