Mi ci è
voluto un po’ per affrontare il Moloch, lo scatolone da me accuratamente
relegato nell’angolo più scomodo del garage, quello che conteneva tutti i miei
diari. Ricordo che quando ero piccolina, diciamo sette o otto anni, il diario
era un regalo consueto, il tipico dono degli scarsi di fantasia che permetteva
loro di trarsi d’impaccio con poco, facendo comunque bella figura.
Chissà se
nel nuovo millennio esistono ancora diari come quelli?
Lo
detestavo, soprattutto per via di quel lucchetto che prometteva segretezza e
inviolabilità e invece si poteva forzare con una forcina per capelli. Ci
scribacchiavo su qualche cosa, pensierini confusi e qualche disegno, e
inevitabilmente dopo qualche tempo finivano dimenticati in un angolo per poi
essere buttati alla prima occasione (e allora non c’era neanche la raccolta
differenziata; finivano in discarica o negli inceneritori).
Come per tante
altre cose, forse per tutte le cose, non era ancora il suo tempo. Sarebbe venuto
molti anni dopo, quando ero al primo anno delle superiori. Era primavera
inoltrata, avevo 14 anni e abitavo ancora nella casa dove ero cresciuta… molte
vite fa, a pensarci bene. Credo di avere cominciato per il motivo per cui tutti
iniziano a tenere un diario: per parlare liberamente di tutto quello che mi
passava per la testa senza timore di essere interrotta, giudicata o non capita.
Scrivevo sui quaderni di scuola, più avanti anche su un paio di Smemoranda, ma
solo perché lo facevano tutte le mie amiche ed ero stufa di sentirmi l’unica
cretina al mondo che non ce l’aveva. Anno dopo anno, pagina dopo pagina, avevo
scritto abbastanza da riempire uno scatolone enorme e pesantissimo, che mi ha
seguito trasloco dopo trasloco fin qui in campagna, ma ho sempre avuto un cattivo rapporto con quei
quaderni e più di una volta ho avuto la tentazione di gettarli via.
Ho
continuato a tenere il diario finché non ho scoperto un altro modo per parlare
liberamente di tutto quello che mi passava per la testa, che poi è scrivere
storie. E quando ho capito che questo è molto più divertente, entusiasmante,
faticoso e stimolante di scrivere banali resoconti delle mie giornate, i diari
sono finiti nell’angolo più scomodo del garage, quello dove non vado mai, e
dove lo sguardo non arriva mai. Era il 2003, e da allora non ho mai più
riaperto quello scatolone. Fino ad ora. Di solito l’impulso a fare certe cose
mi arriva in primavera, quando il sole intiepidisce l’aria e si cominciano a
tenere le finestre aperte, e si vede tutta la polvere che c’è attorno e la
voglia di fare pulizia sgorga dal profondo dell’anima; oppure in autunno,
quando i primi freschi spingono a rintanarsi in casa e a far pulizie in vista
dell’inverno. E per me è uno stimolo potente, simile a quello che spinge gli
animali a migrare.
Il richiamo
dello scatolone si faceva di anno in anno sempre più difficile da ignorare,
così ho deciso che questa sarebbe stata la volta buona di affrontare il Moloch.
Ho aspettato che il mio maritone andasse al lavoro, sono scesa, ho scostato la
vecchia affettatrice di mia suocera e l’acquario che mi ostino a tenere
nonostante non abbia più i pesci da anni, e ho tirato la scatola in mezzo al
garage. Non ho riletto nessuno di quei vecchi quaderni. Mi sono limitata a
sfogliarli sommariamente per rimuovere tutte le cose che da ragazzina amavo
incollare sulle pagine e che non potevo gettare assieme alla carta. Ne è venuto
fuori un mucchietto alquanto eterogeneo… peccato che avessi il cellulare
scarico perché avrebbe meritato una foto. C’erano dischetti del computer e
vecchie monete, microchip e led rubati nel laboratorio di elettronica alle
superiori, stringhe delle scarpe, un posacenere di alluminio, portamonete e
campioncini di bagnoschiuma, targhette di ogni tipo e un pezzo della spugna che
fungeva da cancellino della lavagna, oggetto diventato di culto nella mia classe dopo essere
finito in cima a un albero per mano mia.
Ho tenuto qualcosa, come i vecchi dischetti del computer che a loro modo sono una testimonianza del passato. E poi la copertina di uno di quei diari, quella con su un procione e il numero 14 stampato con i trasferelli, per ricordare a me stessa che niente accade mai per caso (...frase un po' criptica. Un giorno o l'altro ne spiegherò il senso)
Non ho
riletto nessuna delle parole scritte su quei quaderni, me ne sono guardata
bene. Il mio passato non è sempre stato felice, e non avevo nessuna voglia di
andare a scoperchiare vecchi vasi di Pandora e andare a rinnovare dolori e
paturnie che faticosamente ero riuscita a lasciarmi alle spalle… tutte le esperienze
poco edificanti, le mille paturnie adolescenziali, le paure per i compiti in
classe, i piccoli e grandi batticuori per un ragazzo, i problemi con mia madre...
Ma non ho
letto niente neanche quando sapevo che su quel particolare quaderno avrei
trovato degli episodi più piacevoli e innocui, perché comunque quei pensieri
appartenevano ad una persona diversa da quella che sta scrivendo queste righe,
e per me non significavano più niente. Sarebbe stato come leggere i racconti di
un estraneo. Il passato è passato, sta bene dove sta, e nel mio caso adesso sta
bene nella pancia del camion della raccolta della carta. Diventerà altra carta
con la quale magari realizzeranno un altro diario per ragazzine, o uno
scatolone dove stivare vecchie memorie, e il cerchio si chiuderà. Per conto
mio adesso mi sento più leggera.
Nessun commento:
Posta un commento