Finalmente il fresco, il vento e le nuvole nel cielo di
nuovo azzurro! Finalmente si può stare fuori a passeggiare o a lavorare, e
l’aria è frizzante e piacevole. Finalmente non si è più costretti a vivere
sigillati in casa, con le finestre chiuse e le imposte sbarrate per tenere
fuori il caldo violento che in questa lunga estate calda aveva assunto una
consistenza quasi fisica. Il caldo lo potevi toccare, perché l’aria era diventata
talmente spessa che più che respirarla ti pareva quasi di masticarla. E nel
biancore abbacinante del mondo che si cuoceva sotto quel sole cattivo, persino
le ombre sembravano svanire, prosciugate da un caldo inumano. D’accordo, non è
stato come nel 2003, ma solo perché allora era durata cinque mesi pieni, da
maggio a settembre, mentre quest’anno è stato più breve. Per il resto è stato
lo stesso incubo a occhi aperti, un incubo di sudore e di immobilità forzata
perché anche l’attività più insignificante era capace di sfiancarti.
Ma forse la cosa che più mi ha impressionato, in questa mia
estate a 40°C, è stata il deserto delle persone attorno a me. Le poche volte
che un impegno mi strappava dal fresco effimero della casa per buttarmi fuori
in quell’inferno, mi sembrava di muovermi in uno di quegli scenari
post-apocalittici da ‘ultimo uomo sulla Terra’. A parte le due o tre ore più
fresche al primo mattino, dopo le 9 non c’era in giro più nessuno fino alla
tarda sera. Nessuno per le strade, nessuno in paese, nessuno a fare la fila
alla fontana dietro al municipio a prendere ‘l’acqua del sindaco’. Ma anche
nessun animale in giro, o uccelli nel cielo, faceva troppo caldo anche per
loro. Le uniche a sembrare felici erano le cicale, che dalla cima degli alberi intonavano
per noi la loro musica struggente; ma sappiamo bene dalle antiche storie che
non sono animali molto svegli, altrimenti non si farebbero fare la morale da un branco di formiche saccenti che invece hanno passato l’estate a rubare avanzi di cibo dai
secchi dei rifiuti.
Tutto questo mi ha riportato alla mente le estati della mia
infanzia al mare, in Molise, trascorse nella casa degli zii paterni. Parliamo
della fine degli anni ’70, qualcosa come due o tre ere geologiche fa… un mondo
diversissimo da quello di oggi. E, suppongo, anche un caldo diverso da quello
di oggi. Dubito che anche allora ci fossero giorni in cui c’erano 32°C in casa
come è capitato qui, e in ogni caso ero una bimbetta di 5 o 6 anni e a
quell’età caldo e freddo sono concetti molto relativi; il caldo lo vedevo
riflesso sui grandi che passavano il tempo a sventolarsi con ventagli colorati,
ma non ricordo di averlo patito. Quello che invece ricordo bene erano i
lunghi pomeriggi di noia trascorsi inventando giochi silenziosi mentre gli
adulti dormivano per sopportare meglio le ore più calde della giornata: subito
dopo pranzo venivano calate le tapparelle e si accostavano le finestre, e per
le due o tre ore successive l’unica cosa che si sentiva era il russare deciso
di mio padre e il canto potente delle cicale. Visto che pativo anche allora
l’essere reclusa, di tanto in tanto mi infilavo sotto una tapparella e uscivo
sul balcone a guardare il mondo, e quello che vedevo era lo stesso nulla che si
vedeva anche qui. Persino la statale, che allora passava a pochi passi dalla
casa degli zii, era per lo più deserta; passava solo qualche camion, facendo un
rumore particolare che ancora adesso, quando lo sento, mi riporta a quegli
anni.
Ecco, quando penso al sud e alle vacanze della mia infanzia,
è questo ciò che mi viene in mente: strade vuote, tapparelle abbassate,
finestre chiuse, cicale, un sole che stampa ombre nerissime sull’asfalto,
pomeriggi di noia.
Rivivere le stesse cose qui e ora, in un altro luogo e in un altro tempo – riviverli da adulta – è spiazzante. Mi fa vivere in un eterno déjà vu, mi fa credere che il tempo (non solo quello atmosferico) si sia incasinato e non stia più scorrendo come dovrebbe.
È anche per questo che sono contenta che sia settembre,
finalmente.
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